In Francia il piccolo volumetto rosso libro di Pierre Bourdieu “Sur la télévision”, da poco uscito anche in Italia (per Feltrinelli) ha già venduto centomila copie. Il sociologo del Collège de France noto per la vastità e l’importanza delle sue analisi sul sistema scolastico, sulla formazione del gusto, sul ruolo delle élites (qualche titolo: “La distinzione”, “La misère du monde”, “Ragioni pratiche”) e per la sua attenzione alla filosofia (“Méditations pascaliennes”) è da sempre schierato nella vita politica su posizioni di critica sociale radicale, è – come si dice – un maître-à-penser della gauche.
Si è attivamente impegnato nell’inverno del 1995 contro il piano Juppé, è sempre in primo piano nella battaglia con gli immigrati e per la revoca della legge Pasqua, non ha mai risparmiato critiche neppure ai socialisti francesi. La sua ricerca è sempre davvero anticonformista, nel senso più scomodo e disturbante della parola, così come la rivista internazionale che dirige, “Liber”. L’ultimo disturbo ha voluto portarlo al mondo della televisione e dei poteri che la guidano.
In questo libro “Sulla televisione” lei sostiene che è necessario risvegliare la coscienza dei professionisti circa la struttura invisibile dei media. Crede che i professionisti, ma anche il pubblico, siano ancora così ciechi di fronte a questi meccanismi?
Non credo che i professionisti siano ciechi. Credo che vivano in uno stato di doppia coscienza: una visione pratica che li porta con un certo cinismo a cercare di cavare il massimo vantaggio dalle possibilità dello strumento mediatico di cui dispongono (parlo di quelli potenti); e una visione teorica, moralizzante e piena di indulgenza verso se stessi, che li porta a negare pubblicamente quello che fanno, a mascherarlo, anche a se stessi.
Certo che in questo modo lei li irrita.
Me ne rendo conto dalle reazioni provocate dal mio libretto, che essi hanno unanimemente e violentemente condannato. Basta vedere la rassegna di queste reazioni che ha fatto una rivista americana, “Lingua franca”. Ma poi a conferma delle mie critiche, guardi i commenti pontificali e ipocriti che si sono prodotti a proposito del ruolo dei giornalisti nella morte di Lady Diana. Questa doppia coscienza, molto comune presso i potenti (si diceva già degli àuguri romani che non potevano guardarsi senza ridere), fa sì che essi possano, da una parte denunciare come dichiarazioni scandalose, come opera di un pamphlet velenoso, l’oggettivazione scientifica della loro pratica e dall’altra ammettere esplicitamente cose equivalenti, sia nelle conversazioni private tra loro oppure a uso del sociologo che conduce l’inchiesta sia nelle stesse dichiarazioni pubbliche.
Ma ammetterà che non la pensano tutti allo stesso modo.
La doppia coscienza è tipica dei professionisti che hanno una posizione dominante, della Nomenklatura dei giornalisti importanti legati da interessi comuni e da complicità di ogni genere. Presso i giornalisti “di base” la lucidità è evidentemente maggiore e si esprime spesso in maniera diretta. Tra questi il mio libretto è stato accolto calorosamente, alcuni ne hanno fatto quasi un segnale di riconoscimento. Quanto al pubblico che in Francia lo ha accolto plebiscitariamente, le reazioni sono certo molto diverse e vanno dall’adesione ingenua e superficiale alle manipolazioni mediatiche (del tipo di quelle che hanno circondato il caso Lady Diana) fino alla rivolta più totale contro questo nuovo oppio dei popoli. Soltanto una indagine molto raffinata potrebbe consentire di spiegare le diverse maniere di valutare lo stato delle cose nel mondo mediatico.
Lei analizza la formazione del “campo giornalistico” dal punto di vista del “campo sociologico”. Sono due campi incompatibili? La sociologia racconta solo la “verità” e i media solo “menzogne”?
Questa sarebbe una dicotomia tipica di uno stile giornalistico è volentieri manicheo. Va da sè che che ci sono dei giornalisti che producono della verità e dei sociologi che producono menzogne. In ogni “campo” c’è di tutto! Ma senza dubbio in proporzioni diverse e con diverse probabilità. Detto questo, il lavoro del sociologo consiste nel far saltare per aria proprio questi schemi. I sociologi possono fornire ai giornalisti consapevoli e critici (ce ne sono molti ma non necessariamente ai posti di comando delle televisioni, delle radio e dei giornali) degli strumenti di conoscenza e comprensione, eventualmente anche di azione, che permettano loro di lavorare con qualche efficacia nel tentativo di venire a capo delle forze economiche e sociali che pesano su di loro. Attualmente sono molto impegnato, attraverso la rivista Liber, nel creare delle connessioni internazionali tra giornalisti e ricercatori e a sviluppare delle forze di resistenza contro forze di oppressione che pesano sul giornalismo e che il giornalismo fa pesare su tutta la produzione culturale e, per quella via, su tutta la società.
Lei parla della televisione come mezzo di “oppressione simbolica”. Ma non crede possibile un uso della televisione e dei media che non sia oppressivo?
C’è un divario immenso tra l’immagine che i responsabili dei media hanno e dànno di essi e la verità della loro azione e della loro influenza. È evidente che i media nel loro insieme sono un fattore di depoliticizzazione, di istupidimento che agisce ovviamente prima di tutto sui settori meno politicizzati del pubblico, sulle donne più che sugli uomini, sui meno istruiti più che sui più istruiti, sui poveri più che sui ricchi. È una cosa che si sa perfettamente attraverso l’analisi statistica delle probabilità di formulare una risposta articolata a una domanda politica o di astenersi. La televisione propone una visione sempre più spoliticizzata, asettica e incolore del mondo, la televisione molto più dei giornali, che essa però trascina, come è accaduto anche a “Le Monde” nel suo scivolamento verso la demagogia e la sottomissione ai vincoli commerciali.
Ci faccia qualche esempio.
L’affaire Lady Diana è una dimostrazione perfetta di quanto sostengo nel mio libro, anche se qui c’è stato un passaggio agli estremi. Qui abbiamo contemporaneamente il fatto di cronaca che diventa un diversivo (in francese è anche un gioco di parole, faits divers – fatti di cronaca – che fanno diversion, Ndr), l’effetto Telethon, vale a dire la difesa senza rischi di cause umanitarie vaghe, ecumeniche e soprattutto perfettamente apolitiche. Anche Madre Teresa di Calcutta, che io sappia, non era certo una progressista in materia di aborto o un campione nella lotta per la liberazione della donna e rappresentava qualche cosa di decisamente conveniente per questo mondo governato da banchieri privi di stati d’animo, da gente che non vede di sicuro alcun ostacolo a che pii difensori di cause umanitarie vadano a medicare le piaghe, ai loro occhi inevitabili, che hanno contribuito a provocare.
Ho la sensazione che con la morte di Diana, caduta proprio dopo la festa papale della gioventù a Parigi e poco prima della morte di Madre Teresa, sia salatato l’ultimo chiavistello. Un titolo critico sullo stato dell’inchiesta circa l’incidente è apparso sulla prima pagina del “Monde”, solo quindici giorni dopo il fatto, intanto al telegiornale i massacri in Algeria o la situazione gravissima in Israele sono stati ridotti a qualche minuto in coda, mentre forse le sorti del mondo si decidono proprio lì.
Non c’è dubbio, professor Bourdieu, che lei, se usiamo la ormai vecchissima distinzione di Eco tra “apocalittici” e “integrati”, è da mettere tra i primi.
Si può dire, sì. In effetti ci sono in giro molti “integrati”. E la forza del nuovo ordine dominante è che ha saputo trovare i mezzi specifici per “integrare” (in certi casi si potrebbe dire comperare, in altri sedurre, in altri ancora, più rari, convincere) una porzione crescente di intellettuali, e questo in tutto il mondo. Questi “integrati” continuano spesso a viversi e a raccontarsi come critici, come marginali o come dissidenti (o semplicemente come di sinistra), secondo il vecchio schema. E ciò contribuisce a dare una grande efficacità simbolica alla loro azione a favore di una mobilitazione per l’ordine stabilito, per quella cosa che si chiama “globalizzazione” e così via.
Perchè insiste tanto sul caso di Lady Di? In che senso conferma all’estremo le sue tesi?
È una dimostrazione perfetta, insperata nel peggio, di quello che annunciavo nel libro. Le famiglie principesche e reali di Monaco e di Inghilterra, come le altre, saranno conservate come una sorta di serbatoio inesauribile di soggetti da soap opera e da telenovela. In ogni caso è chiaro che il grande happening al quale la morte di Lady Diana ha dato luogo si iscrive bene nella serie di spettacoli che incantano la piccola borghesia di’Inghilterra come di altre parti del mondo: queste sono grandi commedie musicali come Evita o Jesus Christ Superstar, nate dal matrimonio del melodramma e degli effetti speciali di alta tecnologia, feuilleton televisivi lacrimevoli, film sentimentali, romanzi rosa da grande tiratura, musica pop della più facile, divertimenti di tipo famigliare, in breve tutti quei prodotti dell’industria culturale che televisioni e radio conformiste e ciniche riversano per giornate intere, prodotti che riuniscono il moralismo piagnone delle Chiese e il conservatorismo estetico del divertimento borghese.
La stampa non è più il quarto potere, nell’epoca della televisione?
La stampa, il giornalismo scritto, ha una posizione strategica. Essa può oscillare dal lato delle forze del mercato, lasciandosi imporre i temi, i soggetti, lo stile dalla televisione (come è sempre più il caso, almeno in Francia). Essa può anche, invece di servire da tramite per la televisione, lavorare per diffondere delle armi di difesa. Io ho l’abitudine di dire che una delle funzioni della sociologia è quella di insegnare una specie di judo simbolico contro le forme moderne di oppressione simbolica. Il giornalismo scritto dovrebbe essere in prima linea in questa battaglia contro l’istupidimento. E se mi rivolgo ai giornalisti non è, come si vede, per denunciarli, condannarli, colpevolizzarli, ma al contrario per chiamarli a una battaglia comune, ritornando così alla definizione ideale del loro mestiere come condizione indispensabile per l’esercizio della democrazia. Non basta infatti produrre giornali underground che rischiano sempre di rimanere per pochi intimi. Bisogna che le ricerche dell’avanguardia siano rilanciate da giornalisti inseriti nei grandi organi di stampa (e anche nella televisione) e capaci di trasmettere e difendere, spesso al prezzo di lotte e di astuzie, i messaggi più audaci, i più anticonformisti, in tutti i campi. Stiamo per pubblicare, nella serie “Liber-Raisons d’agir” un libro di Serge Halimi, giornalista di Le Monde Diplomatique, intitolato I nuovi cani da guardia, che spinge ancora più in là l’analisi delle compromissioni giornalistiche con il potere.
Lei che ruolo immagina per gli intellettuali nel mondo mediatizzato?
Non sono sicuro che possano giocare il gran ruolo positivo, quello del profeta ispirato, che qualche volta tendono ad attribuirsi, nei momenti di euforia. Già non sarebbe male che si astenessero dal fare i complici e i collaboratori delle forze che minacciano di distruggere le basi stesse della loro esistenza e della loro libertà, vale a dire delle forze del mercato. Ci sono voluti più secoli perchè giuristi, artisti, scrittori, uomini di sapere acquistassero la loro autonomia in rapporto ai poteri politici, religiosi, economici e potessero imporre le proprie norme, i propri valori specifici di verità, nel loro proprio universo, nel loro microcosmo e talvolta con successi variabili nel mondo sociale (con Zola all’epoca dell’affare Dreyfus, con Sartre e i 121 all’epoca della guerra d’Algeria etc.).
Queste conquiste della libertà sono minacciate dappertutto e non soltanto dai colonnelli, dalle dittature e dalle mafie; sono minacciate da forze più insidiose, più viziose, quelle del mercato, ma trasfigurate, reincarnate in forme capaci di sedurre gli uni e gli altri: qualche volta si tratterà della figura dell’economista armato di formalismi matematici, che descrive l’evoluzione dell’economia “mondializzata” come un destino; qualche altra volta si tratterà della figura della star internazionale del rock, del pop o del rap, portatrice di uno stile di vita chic e insieme facile (per la prima volta nella storia le seduzioni dello snobismo si sono attaccate a pratiche e prodotti tipici del consumo di massa come i jeans, le t-shirt e la coca-cola); per altri ancora si tratterà di un “radicalismo da campus” battezzato come “postmoderno” e capace di sedurre attraverso la celebrazione falsamente rivoluzionaria del meticciato delle culture etc. etc.
Nessuna speranza?
Non è detto. Io dico c’è molto da fare per l’intellettuale come lo concepisco. Vede, a qualcuno che gli diceva: “Morte agli imbecilli”, il generale De Gaulle, che per una volta citerò anch’io, rispondeva: “Programma ambizioso!”. Se c’è un ambito nel quale la famosa “mondializzazione” che riempie la bocca di tutti gli intellettuali “integrati” è una realtà questo è proprio quello della produzione culturale di massa, la televisione (penso in particolare alle telenovelas di cui l’America latina ha fatto una sua specialità e che diffonde una visione del mondo “ladi-dianesca”), il cinema e la stampa per il grande pubblico. Questa “mondializzazione del peggio” sono in grado di combatterla soltanto gli artisti, gli scrittori e gli uomini di sapere (specialmente i sociologi), solo loro possono e devono combatterne gli effetti più funesti per la cultura e la democrazia. E, come vede, è un programma molto ambizioso….