Da Reset-Dialogues on Civilizations
Chiudere il confine con la Serbia. Blindarlo con reti metalliche e quant’altro lungo i suoi 175 chilometri. È la decisione presa il 17 giugno dal governo ungherese. Già fioccano le polemiche. Il governo serbo è indignato, la stampa parla dell’ennesimo muro della fortezza Europa. Le associazioni attive nel campo dei diritti dei migranti manifestano perplessità, volendo usare un eufemismo.
La chiusura del confine, secondo il governo ungherese, servirà a bloccare l’afflusso di migranti che nel corso degli ultimi mesi ha interessato il paese magiaro. Quasi tutti transitano dalla Serbia, anello fondamentale della “rotta balcanica”. Del resto verso l’Europa ci si muove anche via terra. Frontex, l’agenzia europea che monitora e presidia le frontiere, segnala che nel primo semestre del 2015 il numero di persone che sono giunte nello spazio comunitario dalle due rotte mediterranee (l’una insiste sulla Sicilia, l’altra sulla Grecia) e da quella balcanica si equivalgono: siamo sulle 50mila unità.
Cinquantamila sono anche le richieste di asilo che l’Ungheria, solo quest’anno, ha ricevuto. Superano già quelle pervenute nel 2014, che toccarono quota 43mila. Si tratta della più alta percentuale pro capite di domande di asilo in Europa, ha spiegato l’agenzia Ansa in un recente servizio. Il 70% sono state compilate da cittadini afghani, siriani e iracheni. A gennaio e febbraio c’era stata invece un’ondata migratoria, rapida e improvvisa, quasi fosse stata pianificata, dal Kosovo. Secondo Frontex nella prima parte dell’anno 23mila persone hanno sconfinato illegalmente, dalla Serbia, in territorio ungherese. Ora questo fenomeno si è attenuato.
Terra e popolo
In queste ultime settimane il primo ministro ungherese Viktor Orban, volendo tornare al principio della faccenda, ha molto insistito sul tema dell’immigrazione. Esprimendosi contro. Contro l’arrivo di migranti e richiedenti asilo nel suo paese; contro la proposta di istituire un sistema europeo di quote (all’Ungheria spetterebbero 700 richiedenti asilo). I toni di Orban, ancora una volta, sono stati perentori. “Il multiculturalismo significa coesistenza tra Islam, religioni asiatiche e cristianità. Faremo di tutto allo scopo di preservare l’Ungheria da questo”, ha affermato, facendo cadere l’accento sul connubio, sacro e inscindibile, tra terra e popolo. Orban ha inoltre sottolineato che l’immigrazione economica, vale a dire quella motivata dalla ricerca di lavoro, è negativa.
Il primo ministro e gli esponenti di Fidesz, il suo partito, al potere dal 2010, non si sono limitati a parlare di tutela dell’ungheresità e a chiudere il confine con la Serbia. Altre iniziative sono state messe in campo. Una è di natura cartellonistica. Il sito economia.hu, edito dalla società di consulenza ITL Group e curato dalla giornalista Claudia Leporatti, riferisce che nelle città ungheresi sono stati affissi cartelloni in cui campeggiano frasi del tipo: “Se vieni in Ungheria non puoi prendere i posti di lavoro degli ungheresi”, “Se vieni in Ungheria devi rispettare la nostra cultura”, “Se vieni in Ungheria devi rispettare le nostre leggi”.
Parallelamente, il governo ha iniziato a inviare alle famiglie ungheresi un questionario sui temi dell’immigrazione e della sicurezza. Da più parti s’è affermato che associarli, peraltro senza fare troppe distinzioni tra migrazione di massa e asilo politico, può generare confusione e alimentare odio. Molto contestata è stata l’ultima delle dodici domande contenute nel questionario, in cui, sintetizza la Fondazione Heinrich Böll, intitolata al celebre e socialmente impegnato scrittore tedesco, si chiede se si è d’accordo con la posizione del governo, secondo cui le risorse potenzialmente stanziate per l’immigrazione (una parte delle quali è comunque sia di origine comunitaria) potrebbero incidere negativamente sulle politiche pubbliche di sostegno alle famiglie ungheresi.
È proprio la Fondazione Böll a definire “ipocrita” la postura di Orban sull’immigrazione, lasciando intendere che l’approccio apocalittico al fenomeno stona con i numeri reali, che dicono che l’Ungheria non è terra d’immigrazione, ma di transito. Se mai sarebbe addirittura vero il contrario. Vale a dire che il saldo tra chi parte e chi arriva è negativo. La riprova starebbe nelle presenze degli ungheresi in Germania, passate dalle 65mila del 2010 alle 114mila del 2013. La loro è un’immigrazione economica. Quella contro cui Orban si scaglia.
Budapest sorvegliata speciale
La battaglia ingaggiata da Orban contro gli immigrati è stata captata dalle antenne di Bruxelles. Il Parlamento europeo, nella sessione plenaria del 19 maggio, ha approvato una risoluzione in cui si afferma che il questionario sull’immigrazione, benché potenzialmente utile, è fuorviante, pregiudiziale e sbilanciato.
La risoluzione, tuttavia, non riguarda solo il discorso dei migranti e delle domande recapitate nelle cassette delle lettere delle famiglie ungheresi. Si concentra anche sulle recenti dichiarazioni di Orban sulla pena di morte. A fine aprile, in seguito all’omicidio di una commessa di una rivendita di tabacchi e giornali, ha sostenuto che le pene previste dai codici in relazioni a crimini di questo tipo sono troppo lievi e che in Ungheria non sarebbe scandaloso se si aprisse una discussione sulla reintroduzione della pena di morte. Gli europarlamentari hanno duramente contestato la cosa e il loro documento, mettendo in fila questa faccenda e quella dell’immigrazione, si spinge a chiedere alla Commissione europea di aprire un processo di monitoraggio sulla situazione dello stato di diritto in Ungheria.
Dunque Orban torna ancora, di prepotenza, al centro delle attenzioni e delle preoccupazioni di Bruxelles. Com’era stato dopo la vittoria elettorale del 2010, cui era seguita una serie di provvedimenti legislativi altamente contestati su libertà di stampa e di culto, senzatetto, giustizia e altri temi sensibili, una parte dei quali confluiti nella riforma costituzionale del 2012. Era finita sotto osservazione anche la politica economica “non ortodossa” praticata dal governo di Budapest, che ha rifiutato di rinegoziare gli accordi contratti con il Fondo monetario internazionale nel 2008 (in sostanza un salvataggio), lavorando molto sui tassi e introducendo balzelli nei confronti dei grossi investitori esteri, specie nel settore bancario, della grande distribuzione e delle telecomunicazioni. Queste misure, ora sulla via della progressiva riduzione, furono all’epoca molto criticate.
Illiberale o non liberale?
Nonostante non ci sia un legame diretto, le posizioni di Orban su immigrazione e pena di morte risultano aggravate dal modo in cui Budapest sta gestendo gli affari esteri al tempo della crisi glaciale, sollecitata dal fardello ucraino, tra Occidente e Russia. Il primo ministro gioca di doppiezza. Da una parte ha votato a favore delle sanzioni economiche comminate a Mosca, dall’altra ha detto – testuali parole – che approvando questi provvedimenti l’Europa s’è sparata sui piedi e non ha esitato a ricevere Putin in pompa magna, lo scorso febbraio. Prima ancora, durante una visita in Romania, dove ha incontrato gli esponenti della minoranza magiara, annunciò che l’Ungheria ha il diritto di cercare una sua via non necessariamente liberale alla democrazia.
È molto probabile che il fastidio che queste parole hanno suscitato a Bruxelles, Washington e Berlino sia stato dovuto a una cattiva traslitterazione delle parole di Orban. L’aggettivo illiberal, riportato sulla stampa anglosassone, ha segato le sfumature. Il concetto di stato non liberale espresso da Orban non voleva significare l’automatica ricerca di una strada illiberale. Né i suoi riferimenti ai modelli russo, cinese e turco, espressi sempre nel corso del viaggio in Romania, volevano dire che l’Ungheria deve adeguarsi agli schemi tracciati da Putin, Erdogan e dalla dirigenza di Pechino. Piuttosto, ha fatto notare qualcuno, Orban voleva segnalare che non è scontato che democrazia liberale e crescita economica siano due facce della stessa medaglia. Si può avere la seconda anche in assenza della prima e senza che la prima venga sostituita da una forma illiberale di governo. Questo era il senso del discorso del primo ministro magiaro.
Campagna elettorale continua
Orban è un personaggio che divide. Una corrente di pensiero vede in lui un salvatore della patria, l’uomo che sta difendendo l’Ungheria dalla contaminazione culturale e dalle logiche predatore del Fondo monetario. Un’altra lo percepisce come un governante autoritario, se non un vero e proprio dittatore, possibilmente fascista, che sta uccidendo le libertà civili e politiche, trascinando l’Ungheria fuori dallo spazio europeo.
Visioni come queste non colgono la vera essenza dell’orbanismo, che impasta cultura politica conservatrice, nazionalismo e statalismo, declinandole in base alle contingenze e alle pulsioni della massa. Orban non vuole uscire dall’Europa, ma sa che la critica dell’Europa e all’Europa in questo momento porta voti; è conscio che l’economia ungherese dipende da quella dell’eurozona e della Germania (primo investitore nel paese), ma non ignora che qualche bordata al modello capitalistico, qualche danza amoreggiante con le “democrature” eurasiatiche e qualche “punizione” alle grandi compagnie straniere possano intercettare il livore popolare, tramutandosi in consenso; è consapevole che l’Ungheria non è un paese per migranti, ma sfrutta cinicamente le paure che ogni grande migrazione crea.
Sopra, sotto e al limite dell’asticella. In questi anni Orban ha fatto l’equilibrista. Ha indispettito e tranquillizzato, ha forzato e rassicurato, ha operato strappi e poi cercato di rammendare. Ma il suo progetto politico, che è neo-conservatore e statalista, è andato comunque avanti. Non ha la forza di una rivoluzione, forse. Non è comunque aria fritta. D’altro canto già la sola Costituzione rappresenta un’eredità della stagione scandita dal dominio di Orban.
Anche le sue ultime uscite s’inseriscono in questo solco. Ma c’è una novità. Il consenso sembra entrato in una fase calante, tanto nella società (questo dicono i sondaggi) che all’interno del partito, dove si è consumata una rottura notevole. Orban è entrato in rotta di collisione con Lajos Simicska, oligarca, magnate dei media, mente finanziaria del partito e consigliere economico fino a ieri ascoltatissimo. È lui tra l’altro l’iniziatore di quell’idea – pallino di Orban, in qualche passaggio concretizzatosi – secondo cui l’Ungheria deve avere grandi aziende nazionali e recuperare margini di manovra in campo economico, evitando di delegare tutto o quasi tutto ai grossi investitori stranieri.
Lo scontro tra Orban e Simicska è personale, ma si lega anche a questioni di soldi, appalti, privilegi. In ogni caso ha fatto traboccare il vaso, dimostrando che anche dentro Fidesz c’è stanchezza nei confronti dell’uomo forte. Che intende recuperare slancio alla solita maniera: facendo concorrenza, a destra, agli estremisti di Jobbik. Appropriandosi delle loro parole d’ordine e dei loro cavalli di battaglia. Incluso quello contro gli immigrati. Al momento Jobbik è l’unico partito, tenuto conto del deserto che s’è creato a sinistra, a essere dotato di una certa caratura elettorale. Orban lo rincorre, persino più del solito. Stavolta superando l’asticella, e anche di parecchio. Questo dicono le cronache di queste ultime settimane.
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