I Balcani nel fragile limbo
tra Russia e Occidente

Da Reset-Dialogues on Civilizations

I politici sanno essere camaleontici, ma nel cambiare il colore della pelle Milo Djukanovic sa farsi valere più di altri.
Il primo ministro del Montenegro, già presidente, al potere ininterrottamente dal 1991 esclusa una breve parentesi senza incarichi istituzionali, salì alla ribalta come vassallo di Slobodan Milosevic. Ne sostenne le guerre e scelse di restare nella Jugoslavia.

Successivamente se ne distanziò, iniziando a perorare la causa dell’indipendenza. Battaglia vinta nel maggio del 2006, anno in cui fu convocata su regia europea una consultazione referendaria sull’indipendenza dalla Serbia. Il blocco del sì vinse, ma con scarto molto ridotto.

Montenegro, Nato e rubli

Indipendenza fa rima con integrazione: nella Nato, in Europa. Djukanovic non ha mai fatto mistero di questo obiettivo. Ciò non gli ha impedito di rivolgersi al capitale russo, né di pensare che ci fosse contraddizione nel farlo. Servivano soldi freschi per fare sviluppo e rendere il distacco dalla Serbia meno traumatico a livello economico. Sono affluiti rapidamente, ma non senza sollevare dubbi. Capitali privati fuggiti da Mosca, depositati in paradisi offshore e lavati sull’Adriatico, s’è detto. Sono fioccate diverse inchieste giornalistiche. Non è facile scavare.


Il bombardamento di Dubrovnik, nel 1991. Vi parteciparono anche i militari montenegrini.

A inizio dicembre il Montenegro è stato invitato dai ministri degli esteri della Nato a entrare nell’alleanza. L’apertura, su cui dovrebbe arrivare il timbro formale al prossimo summit Nato, che si terrà a luglio a Varsavia, ha alimentato le consuete recriminazioni russe sull’allargamento del blocco militare euro-americano.

Lo scatto atlantico del Montenegro, comunque sia, non arriva all’improvviso. Podgorica e la Nato lavorano a questo obiettivo da tempo e alla luce del sole. A cosa è dovuto, dunque, il fastidio del Cremlino? Qualcuno dice dalla mole di investimenti spostata sulle rive dell’Adriatico dalla Russia, che è il primo investitore del Montenegro. Lettura non troppo convincente. Tra la politica estera di Mosca e i paesi dove gli oligarchi mettono i soldi, seguendo logiche di convenienza e arricchimento, non ci sono vincoli così stretti. Non sarà l’effetto Nato a indurre i capitali russi a disinvestire, ma il mutare eventuale delle condizioni, degli sgravi e dell’opacità offerta dal Montenegro.

Il possibile allargamento all’ex repubblica jugoslava dà modo alla Nato di chiudere la linea dell’Adriatico (l’unica eccezione resterà l’istmo bosniaco di Neum), cosa che assicura indiscutibili vantaggi strategici. Si lega allora a tale aspetto la sensibilità dei russi? Verrebbe da dire che anche questa è una spiegazione da sola non sufficiente, proprio perché il processo è in piedi da tempo.

La cosa che più genera malumori a Mosca sta se mai nell’azione complessiva della Nato, tornata tonica e tentacolare sul fronte dell’est con lo scoppiare della crisi ucraina, cui hanno fatto seguito il rafforzamento delle posizioni in Europa centrale, il rinnovato dialogo con la Georgia e l’offerta recente al Montenegro.

Terra magmatica

Nei Balcani la depressione economica globale ha lasciato strascichi pesanti. Il 2016 sarà il primo anno in cui, dal 2009, nella regione non ci saranno paesi in recessione. Si chiude questa crisi, ma se ne apre un’altra: quella dei rifugiati. Sta mettendo a dura prova i governi e alza il tasso di vulnerabilità di questo lembo d’Europa.

Nel frattempo il processo di allargamento europeo procede troppo a rilento e questo comporta l’emergere di stanchezza, malumori e risentimenti, in un’area in cui già ci sono picchi vertiginosi di esclusione sociale. Attecchiscono, così, le sirene della militanza islamista. La componente balcanica dei foreign fighters è limitata, ma il fenomeno diventa non trascurabile se rapportato alle dimensioni demografiche dei paesi d’origine.


Servizio di Voice of America su penetrazione islamista e influenza russa nei Balcani.

L’incrociarsi di questi fattori non aiuta a ricomporre le fratture della regione. Anzi. Gli accordi tra Serbia e Kosovo sulla normalizzazione dei rapporti politici, risultato notevole agguantato dalla diplomazia europea, rischiano di saltare, minacciati dalle proteste a oltranza dell’opposizione parlamentare a Pristina. La Republika Srpska, l’entità serba della Bosnia Erzegovina, rilancia nuovamente l’ipotesi secessionista referendaria. Il Montenegro è stato teatro di dure proteste anti-governative. In Macedonia il governo conservatore di Nikola Gruevski è stato accusato di corruzione e ingordigia di potere. La vicenda ha avuto ricadute anche sul confronto storico tra la componente slava (maggioritaria) e quella albanese o forse è stato quest’ultimo a essere stato sollecitato come diversivo, si mormora. L’emergenza è al momento tamponata, grazie alla creazione di un governo di coalizione che traghetterà il paese al voto, in aprile. Ma dopo?

Difficile che queste ondate di instabilità diventino incontrollabili. L’Europa, tutto sommato, è una colla che tiene assieme i vari pezzi della regione grazie a incentivi politici e aiuti economici (la Banca europea per gli investimenti è il primo prestatore della regione). È vero al tempo stesso che la cooperazione regionale, architrave dell’integrazione europea e del buon vicinato, continua a procedere con passo incoraggiante. Eppure garantire ripari sicuri è difficile, quando l’aria è così carica di tempesta. È così che Bruxelles nel 2014 ha rilanciato con vigore il processo di dialogo con i paesi della regione, attraverso il cosiddetto “processo di Berlino”, un’iniziativa tedesco-austriaca che ora sembra destinata a coinvolgere il resto dell’Europa che conta. Si muovono anche gli americani. Hanno compiuto nel corso di quest’anno molte visite di alto livello nella regione. Temono che lo scenario ucraino possa contaminarla, mettendo benzina nel motore delle rivendicazioni secessioniste. L’accelerazione atlantica sul Montenegro, che non rischia scismi territoriali, ma è una nazione socialmente e politicamente polarizzata, risponde all’esigenza di mettere dei paletti certi.

I Balcani non sono un cortile di casa della Russia, che però sta cercando di declinare a proprio vantaggio il momento complicato che la regione vive. Al Cremlino fa comodo che la regione resti intrappolata nel limbo, che rimanga una terra magmatica, fonte di tensioni vecchie e nuove. Mosca sostiene le richieste dei serbo-bosniaci, che pretendono la chiusura dell’Ufficio dell’alto rappresentante, il proconsole internazionale – più occidentale che internazionale – che, nonostante sia svuotato di credibilità, continua a sorvegliare l’attuazione degli accordi di pace di Dayton del 1995. Se lasciasse Sarajevo, la Republika Srpska potrebbe alzare la posta. Forse il referendum indipendentista non si farà mai, ma le prerogative dell’entità, già ampie, potrebbero dilatarsi fino a configurare una situazione cristallina di indipendenza de facto. Facendo la voce grossa sul Montenegro, invece, i russi cercano di tenere alta la tensione a Podgorica, sapendo che se al tempo dell’indipendenza il paese si divise in due blocchi dal peso praticamente equivalente, adesso potrebbe accadere lo stesso con la storia dell’adesione alla Nato. Un pezzo di paese potrebbe aggrapparsi ai legami emotivi e culturali con la Russia, che hanno radici piantate nella storia.

Tiro alla fune in Serbia

È però la Serbia il paese balcanico dove il blocco occidentale e i russi giocano con più spregiudicatezza al tiro alla fune. Il rapporto tra Belgrado e la Russia passa dal portafoglio, ma anche dal cuore. È sedimentato nei secoli, più ancora di quello tra Mosca e Podgorica. La Serbia però aspira a entrare in Europa. L’intera classe politica, salvo eccezioni residuali, si è convertita a questa missione. Il presidente Tomislav Nikolic e il primo ministro Aleksandar Vucic hanno rinnegato il verbo ultra-nazionalista e anti-occidentale che predicavano una volta. L’adesione all’Europa, nel caso serbo, non viaggia in parallelo con quella alla Nato: i bombardamenti del 1999 su Belgrado e sulle altre città della Serbia evocano ancora rabbia e dolore.


La parata militare per il settantesimo anniversario della liberazione di Belgrado dal nazifascismo, caduto l’anno scorso e anticipato per farlo corrispondere con la visita di stato di Putin in Serbia.

Questo galleggiare tra le linee potrebbe essere una virtù, se non fosse che in una congiuntura come questa, segnata dal contrasto tra l’Occidente e la Russia, tutti cercano di modificare a proprio vantaggio gli equilibri. Mosca aziona le leve economica, sentimentale e mediatica. Sputnik, il sito internazionale promosso dal governo russo, ha lanciato da poco una versione in lingua serba. La Russia sa che la Serbia, come ogni altro paese balcanico, è destinata sulla carta a diventare membro effettivo dell’Ue. Ma l’allargamento europeo non compromette la possibilità di fare affari o di esercitare influenza. Quello della Nato invece sì. Comprime i margini di manovra.

L’Occidente, in ogni caso, non pretende di trascinare la Serbia nel suo braccio militare (su questo andrebbe ricordato che l’adesione all’alleanza atlantica non avviene secondo schemi coercitivi). È vero però che l’ingresso del Montenegro accerchierebbe Belgrado, lasciando la sola Bosnia Erzegovina come cuscinetto, tenuto conto che gli americani hanno una grossa base in Kosovo (Camp Bondsteel) e che la Macedonia non è nella Nato solo perché si è impelagata in un’ormai lunghissima e surreale vertenza lessicale-diplomatica con la Grecia.

Non è in gioco l’ingresso nella Nato, dunque. Ma l’Occidente preme molto, su Belgrado, affinché non si avvicini troppo alla Russia. Gli americani, sulla Serbia e in generale nell’intero quadrante est, sono esigenti e incalzanti. Gli europei più concilianti. La Germania per esempio ha spinto la Serbia a dare di più nei negoziati sul Kosovo e ha preso in mano il pallino del gioco, nel contesto dell’allargamento ai Balcani. Parallelamente, benché sia promotrice delle sanzioni alla Russia, dovute alla crisi ucraina, cerca di non staccare la spina dei rapporti con Mosca e persino di ridare un po’ di linfa al consiglio Nato-Russia.

E Belgrado? Porta avanti una politica dei due forni, evitando di allinearsi all’Europa sulle sanzioni alla Russia, ma adeguandosi alle politiche di austerità da essa suggerite e piegandosi al compromesso sul Kosovo. Finora il governo Vucic non ha sbandato, ma non si capisce fino a quando questi equilibrismi potranno essere sostenibili. E la Serbia è il paese da cui nel bene e nel male dipendono gli equilibri nei Balcani.

Immagine di copertina: Belgrado, Vladimir Putin è ospite onore della parata militare per le celebrazioni della liberazione. Insieme a lui il presidente serbo Tomislav Nikolic.

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