Il Mediterraneo ieri pomeriggio ha perso un protagonista della sua vita politica e culturale, uno dei più autorevoli interpreti dell’identità di Beirut, città araba, mediterranea, moderna, europeizzata: Samir Frangieh. Scomparso immaturamente a soli 71 anni.
Per la cultura del vivere insieme questo grande intellettuale arabo, vissuto a lungo a Parigi e insignito pochi mesi fa, già minato nella salute, della Legion d’Onore, costituisce un patrimonio che merita di essere custodito con scrupolo. Da giovanissimo è stato militante del Partito Comunista Libanese, poi protagonista degli accordi di pace di Taif, subito dopo la fine della guerra civile ha impegnato tutto se stesso nel dialogo islamo-cristiano, dando vita al Congresso Permanente per il Dialogo. Maronita, figlio di uno dei padri del Libano indipendente, è stato sempre un uomo tanto schivo, riservato, quasi timido, quanto determinato. E infatti fu lui, pochi giorni dopo l’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri, ad apparire alla televisione libanese annunciando l’inizio dell’intifada nonviolenta libanese per ottenere il pieno ritiro siriano dal Libano.
Uomo naturalmente e istintivamente curioso, anche nella sua malattia aveva trovato motivo d’indagine, curiosità, studio. Era un inguaribile ottimista Samir Frangieh, pronto sempre a vedere in tutto e tutti un possibile risvolto positivo. Anche in Hezbollah, anche dopo l’assassinio di Hariri, ha seguitato a vedere un insieme di uomini da non poter considerare persi. Solo il clan degli Assad era fuori dal suo orizzonte di dialogo possibile.
“Ognuno di noi ha un’identità, ma nessuno ha un’identità monolitica, poiché ognuno di noi ha un’identità plurima”. Più o meno disse così, qui a Roma, all’inizio di un bellissimo intervento al convegno di Sant’Egidio sulle primavere arabe qualche anno fa. E partiva di qui la sua convinzione che il dialogo fosse con musulmani in carne e ossa, uomini come lui e donne come sua moglie, stupenda attivista femminista.
Una volta gli chiesi perché dopo essere rimasto durante tutta la guerra civile nel cosiddetto versante musulmano di Beirut, ora che la guerra era finita non tornasse nella Beirut cristiana: “perché non potrei vivere senza Alì”, il fruttivendolo sciita che aveva la sua bottega proprio davanti al portone di casa sua.
“Se dovessi rinascere? Vorrei essere un monaco tibetano”, rispose in un’intervista “botta e risposta” su un quotidiano libanese. Un lusso che la tragedia mediorientale non gli consentiva di prendersi prima; il Libano aveva davvero troppo bisogno di lui. Ma non solo il Libano. Durante le lunghe, stupende mattinate che ho avuto modo di trascorrere con lui quando lo obbligai a scrivere insieme “Il giorno dopo la Primavera” (edito da Mesogea”) mi spiegò così, il senso politico-culturale del Libano. Parole che aiutano a capire anche la tragedia siriana:
«Aprendo una finestra non totalitaria in questa regione, il Libano è un messaggio arabo per il Levante arabo: e qual è questo messaggio? È un messaggio molto semplice. Non ci basta più convivere, perché le convivenze oggi prevedono anche i separati in casa. L’amara lezione della guerra civile è che dobbiamo imparare a vivere insieme. Una società complessa, dove le diverse comunità sono chiamate ad essere riconosciute non come “minoranze” ma come componenti culturali della società, ha bisogno della democrazia consensuale per rasserenare le diverse comunità religiose. Solo così le diverse tradizioni ritroveranno valore e peso sociale, accanto a un individuo che non le percepisca più né in pericolo né come caserme. Questo è il messaggio… La guerra libanese è stata ricca d’insegnamenti, perché la violenza non obbedisce alle norme conosciute. E infatti la nostra non è stata una guerra d’indipendenza o una guerra identitaria, o una guerra etnica, o una guerra comunitaria. È difficile classificarla, perché è stata una guerra che comprende tutte queste guerre. È stata una guerra tra Stati, ma anche di liberazione nazionale, una guerra comunitaria, tra cristiani e musulmani, ma anche una guerra civile all’interno delle comunità. È stata la guerra d’Israele nel nome del suo progetto di alleanza delle minoranze contro la maggioranza musulmana, ma anche la guerra della Siria nel nome della Grande Siria nelle sue “frontiere storiche” (la vecchia Grande Siria che comprendeva tutto il Levante, nda). I nomi per classificare questa guerra variano da una fase all’altra, l’unica costante è la violenza, alimentata dalla memoria “storica” caricata di tutti i malesseri del passato. Ecco perché “violenza” è la parola rimossa. Si parla di aggressione, reazione, complotto, rappresaglia, legittima difesa, resistenza, vendetta… per mascherare una realtà che nessuno vuole riconoscere. Anche i concetti che noi, “di sinistra”, usiamo abitualmente, e cioè “lotta di classe”, “guerra di liberazione nazionale”, “violenza rivoluzionaria”, dimostrano tutti i loro limiti. Il fatto è che la violenza ha un carattere mimetico, come spiega René Girard, così che ognuno diviene il doppio speculare del suo antagonista. La violenza dunque si fonda sulla reciprocità, ma sommando momenti non reciproci, perché gli antagonisti non occupano mai la stessa posizione contemporaneamente, ma successivamente… Ecco allora che solo una rinuncia incondizionata alla “violenza” può salvarci dalla “violenza mimetica”. Queste idee di René Girard hanno dato un nuovo indirizzo al mio impegno per il dialogo. Tra cristiani e musulmani, tra libanesi e libanesi, tra libanesi e siriani. Per fermare la violenza, infatti, cosa dobbiamo fare? Raggiungere un cessate-il-fuoco? Fare la pace? Ma quale pace? Una pace “gloriosa”, la pace dei coraggiosi, o una pace banale, meschina? E in questo caso che fine faranno i grandi principi nel nome dei quali ci siamo allegramente massacrati per decenni?
Mi è servito molto tempo per capire che il contrario della violenza non è la pace, cioè la pace tra comunità, ma il legame, il legame tra individui appartenenti a diverse comunità e gruppi. Così ho capito che, pacificato il Paese, l’obiettivo del nostro dialogo non doveva più essere quello di cercare un compromesso, ma di definire un progetto di vita in comune. Ecco l’idea del vivere insieme, profondamente diversa da quella di coesistenza comunitaria».
Ma è l’ articolo apparso circa un anno fa su L’Orient Le Jour che probabilmente può aiutarci a cogliere tutto il suo spessore di intellettuale mediterraneo e di tutto il Mediterraneo: “Siamo oggi, qui e nel mondo, a un bivio storico, portatore di tutti i pericoli. Cominciamo dal mondo: il sogno di una globalizzazione più umana è sbiadito con l’aumento delle disuguaglianze, la concentrazione della ricchezza, il declino della classe media e questo ha causato gravi problemi politici che minacciano di portarci alla fine della democrazia. Inoltre i pericoli causati dal surriscaldamento, dal livello del mare in ascesa, dalla scarsità di acqua potabile ecc pongono in discussione la sopravvivenza stessa del pianeta.
Nel mondo arabo il sogno di una transizione democratica è cominciato con la ‘primavera araba’ che si è conclusa con la sanguinosa repressione perpetrata dal regime siriano, che ha provocato il recupero di un conflitto vecchio di secoli tra sunniti e sciiti, il risveglio dei sogni imperiali che hanno alimentato la violenza, il sogno dell’Iran di ridare vita a un impero persiano che si estendono sui lati del Mediterraneo fino all’Asia centrale, quello di Erdogan fare della Turchia l’erede dell’Impero ottomano, o anche quello di Putin per ripristinare il suo ruolo come protettore delle minoranze in Oriente per la Russia…
In Libano il sogno di un cambiamento pacifico iniziato con ‘la primavera del 2005’ ha incontrato la violenta opposizione da parte dei sostenitori della Siria e il ritorno delle tensioni tra comunità che hanno bloccato il funzionamento delle istituzioni dello stato. Il compromesso raggiunto dalle forze politiche con le recenti elezioni presidenziali ha contribuito a fermare il crollo dello stato, ma il suo costo è elevato perché il Libano si ritrova, senza averlo scelto, nel girone dell’Iran. Al fine di porre le basi per un cambiamento reale, il compromesso dovrebbe essere basato su un approccio che non viene dalla politica, ma dalla morale: dobbiamo rompere con la cultura della violenza che condividiamo, senza neanche accorgercene, con tutti gli estremisti che stiamo cercando di combattere. Condividiamo con loro il rifiuto della diversità che è caratteristica delle società umane; diversità sociali, culturali, religiose, etniche, linguistiche.
Condividiamo con loro questa ‘paura dell’ altro’, che giustifica il piegarsi su se stessi e legittimare l’uso della violenza. Condividiamo con loro il fatto di aver sottratto alla religione la sua funzione essenziale, che è quella di insegnare agli uomini a vivere insieme in pace. Condividiamo con loro questa visione binaria di un mondo diviso in due accampamenti, il campo dei buoni al quale noi necessariamente apparteniamo e il campo del male che riunisce tutti i nostri avversari. Rompere con questo ci permette di ricostruire il nostro vivere insieme su nuovi valori. A odio, egoismo, avidità, arroganza, dovremmo sostituire solidarietà, empatia, nonviolenza… Questi nuovi valori, già fortemente presenti in innumerevoli azioni altruistiche condotte dalla società civile, dovrebbero permetterci di infondere nuova vita in questa esperienza unica del vivere insieme che il Libano ha conosciuto e che oggi con la violenza che ha devastato la nostra regione e che si estende a Europa e Africa acquisisce una nuova dimensione. Questa rottura con la cultura della violenza, dominante per più di mezzo secolo, non è una scelta politica, ma una necessità di sopravvivenza; il Libano difficilmente potrebbe rimanere ai margini dei conflitti nella regione quando un partito rappresentato nel governo (Hezbollah, nda) è impegnato direttamente nel conflitto a fianco del regime siriano e più di 1 milione e mezzo di siriani hanno già trovato rifugio nel Libano.
Questo appello per una nuova cultura si rivolge a tutti i libanesi, anche a coloro che ancora credono nella virtù della violenza e solo ora stanno cominciando a scoprire il costo esorbitante della loro scelta. È giunto il momento, dopo tutti questi anni di violenza, di misurare il vantaggio insospettato che potrebbe fornirci la nonviolenza.”
Ciao Samir; senza di te, senza il tuo sguardo dolce, curioso, profondo, senza la tua voce sottile e “amicalità per l’altro”, tutto l’altro, senza la tua indiscutibile capacità di essere curioso di tutti e di tutto, senza la tua capacità di dirci che l’uomo senza empatia non esiste, sarà dura.