L’anno del Principe (scritto in gran parte nella seconda metà del 1513), che si annuncia fitto di interventi e celebrazioni, è stato inaugurato dal convegno Il pensiero della crisi: Niccolò Machiavelli e il “Principe”, che è tenuto il 24 e il 25 gennaio alla Casa delle Letterature di Roma. Non è forse un caso che si sia cominciato da Roma, dato che quel trattato così fiorentino, che l’ex segretario della repubblica scrisse per vedere se i Medici, padroni di Firenze, gli facessero almeno «voltolare un sasso», ha del resto più di un legame con Roma, dato che il legame Firenze-Roma era allora strettissimo (il papa Leone X, Giovanni de’ Medici, era figlio di Lorenzo il Magnifico): sappiamo che l’autore vi lavorò intensamente tra il luglio e il dicembre del 1513 grazie ad una celebre lettera del 10 dicembre diretta proprio a Roma, all’amico Francesco Vettori. Il convegno romano, per iniziativa di Gabriele Pedullà, ha dato voce alla critica machiavelliana più giovane (anche qui si fa avanti quella che è stata chiamata generazione TQ): Pedullà ha peraltro pubblicato recentemente un poderoso e sostanzioso volume su Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» (Bulzoni, 2011, pp.633, €. 44,00), che, puntando sul rilievo che nel più ampio trattato dedicato alle repubbliche Machiavelli attribuisce ai conflitti sociali dell’antica Roma, vede tra i nodi essenziali del suo pensiero il radicarsi della «libertà» e potenza di uno stato nello spazio che le sue istituzioni danno al conflitto, a scontri tra le classi non distruttivi, ma rivolti in definitiva alla costruzione del bene comune. Anche il programma del convegno ha sembrato voler rivolgere una attenzione privilegiata ai Discorsi, seguendo una tendenza della critica machiavelliana degli ultimi decenni: ma comunque il tema della crisi permette di risalire dai Discorsi al Principe, dove pure non mancano richiami ai conflitti di classe, ai diversi «umori» dei «grandi» e del «popolo» (anche lì con una più diretta simpatia dell’autore per l’orizzonte «popolare», anche se la sua nozione di popolo è qualche cosa di diverso da quella moderna: popolo, si avvicina di più, semmai, a ciò che intendiamo come classe media).
Il Principe è proprio libro che parte da una crisi, storica e personale: dalla constatazione della debolezza degli stati italiani, di fronte agli invasori francesi e spagnoli, e dall’amarezza per aver perso, con la sconfitta della repubblica e il ritorno dei Medici a Firenze, il proprio posto di segretario. Machiavelli lo scrive per offrirlo ai Medici, per mostrare la propria competenza, nella speranza di recuperare un ruolo nella politica fiorentina: indica linee politiche per la costruzione di un più forte potere principesco mediceo, nonostante la sua preferenza personale per la forma repubblicana. E questa sua riflessione sul principato, e sulla stessa possibilità di creare un principato «nuovo», è segnata da una specie di ansia critica, dalla continua verifica delle «difficoltà» che ineriscono ad ogni gestione del potere, delle minacce continue che gravano su di esso: del resto nella già ricordata lettera del 10 dicembre 1513 dice proprio che il suo «opuscolo» è rivolto a discutere «che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono». Tutte le mosse del principe e dei singoli principi di cui in quest’opera si tratta sono minacciate dalla perdita: e un perdente è alla fine quello che viene indicato come il più capace tra i contemporanei, da imitare come modello, Cesare Borgia, crollato alla fine per un imperdonabile errore. Non uno scienziato della politica, Machiavelli (come afferma una lunga tradizione che continua a prolungarsi), ma un radiografo della catastrofe, impegnato ad indagare sulle «difficultà», gli «inconvenienti», gli «errori» che gravano sull’esercizio del potere e sul controllo delle istituzioni sul mondo: che cerca soluzioni per rispondere alla crisi, che a loro volta restano implicate nella crisi, incardinate dentro le condizioni della crisi stessa. In questo quadro egli offre tutta una serie di rilievi di quella che oggi chiameremmo antropologia o psicologia sociale, individuando gli effetti di una politica dell’immagine, dell’illusionismo, della virtualità, l’efficacia di un puro “mostrare”, capace di catturare consenso sulla base di non coscienza, di passività, di pulsioni e desideri eterodiretti dei cittadini- sudditi.
Per una serie di imprevedibili intrecci questo libretto è diventato vademecum della politica più spregiudicata, ferina, diabolica; ha finito per dare (o è sembrato farlo) indicazioni per la scalata al potere, per il suo più cinico esercizio. Forse oggi possiamo ripensarlo in una chiave diversa: usarlo non come manuale di comportamento politico (nel Novecento lo si è fatto spesso in maniera disastrosa, anche nella sinistra leninista e nei suoi deliranti prolungamenti), né come modello filosofico, ma come spinta verso una politica capace di farsi carico delle difficoltà, dei molteplici «inconvenienti» critici che gravano sull’equilibrio delle nostre società, capace di reagire alle derive morali, economiche, politiche, antropologiche, ecologiche in cui siamo presi. Una politica che sappia confrontarsi con l’«apparenza», per resistere alla sua risoluzione in pura immagine, negli effetti di comunicazione, in indifferente virtualità.