Lo scopo di questo breve saggio è quello di esporre i nodi centrali delle riflessioni di Isaiah Berlin sul pensiero di Machiavelli. Tuttavia, oltre ad offrire alcuni chiarimenti, e si spera stimolare qualche spunto di riflessione interessante, sulla particolare interpretazione che Berlin ha dato degli scritti del segretario fiorentino, si cercherà anche di chiarire come tali riflessioni si collochino e quale significato assumano all’interno dell’opera del pensatore inglese. Chiarendo subito che una comprensione adeguata dell’interpretazione che Berlin dà di Machiavelli, passa necessariamente da una considerazione complessiva del suo pensiero filosofico. Poiché, in Berlin, l’attenzione alla storia delle idee è spesso anche un pretesto per sviluppare riflessioni che trascendono il loro contesto originario e s’impongono in tutta la loro attualità. E le sue considerazioni su Machiavelli, come vedremo, da questo punto di vista non fanno eccezione. Va detto anzitutto che Berlin ama citare spesso Machiavelli, tanto da dedicargli anche un intero saggio, The Originality of Machiavelli (1969), a cui, per ovvie ragioni, in questo scritto sarà dedicato lo spazio più ampio. Tuttavia, come già detto, prima di intraprendere nello specifico l’analisi di questo testo sarà forse opportuno, per poterne comprendere meglio il senso, soffermarsi non solo sul modo di fare storia delle idee da parte di Berlin, contestualizzando le circostanze in cui egli decise di dedicarsi a tale attività, ma soffermarsi anche sul suo modo di fare filosofia.
Tenendo sempre presente che questi due differenti aspetti, la filosofia e la storia delle idee, nell’opera di Berlin finiscono inevitabilmente col costituire un intreccio indissolubile. In questo modo si potrà chiarire meglio, forse, il particolare ruolo svolto dalla figura di Machiavelli nell’opera di Berlin, capire cioè, quale visione articolata e complessa si agita sullo sfondo dell’interpretazione che egli ci offre del suo pensiero. […] Il pensiero di Isaiah Berlin si presenta soprattutto come una sfida. Una sfida che consiste, più che in una particolare teoria esplicativa o normativa, nel tentativo, durato tutta una vita, di giustificare e difendere un certo modo di pensare i problemi politici e morali. La maggior parte dei suoi scritti sono stati infatti dedicati a portare avanti il compito di scalzare una struttura o uno schema concettuale da lui definiti in vari modi: “monismo”; philosophia perennis; l’“ideale platonico” per cui, come nelle scienze, tutte le domande autentiche devono avere una e una sola risposta vera, essendo tutte le altre necessariamente errate, e per cui deve esserci una via attendibile e sicura per pervenire alla scoperta di queste verità, perché le risposte vere, quando trovate, devono necessariamente essere compatibili tra loro e formare un tutto unico, perché una verità non può essere a priori inconciliabile con un’altra. Applicata alla morale e alla politica questa convinzione si traduce, secondo Berlin, in una credenza utopica nella «possibilità di scoprire e di armonizzare fini obbiettivamente validi; validi per tutti gli uomini, per tutti i tempi e per tutti i luoghi». Contro il monismo così inteso egli difende e giustifica invece il “pluralismo”, non nel senso proprio degli scienziati politici e dei sociologi, ma nel senso di “pluralismo dei valori”: la credenza che nel mondo dell’esperienza ordinaria ci troviamo «di fronte ad una scelta tra fini ugualmente ultimi ed esigenze ugualmente assolute, la realizzazione di alcuni dei quali implica inevitabilmente il sacrificio di altri»; che «i fini degli uomini sono molteplici e non tutti sono in linea di principio compatibili l’uno con gli altri», cosicché «non si può mai eliminare del tutto la possibilità del conflitto – e della tragedia – dalla vita umana, sia personale sia sociale».
La necessità di scegliere tra esigenze assolute è dunque un’ineluttabile caratteristica della condizione umana, perché gli obbiettivi umani «sono molteplici, non tutti commensurabili e in perpetua rivalità l’uno con l’altro». In questa prospettiva l’opera di Berlin si pone così come un tentativo di decostruire i grandi sistemi di pensiero che, fin dalle origini, hanno dominato la scena del pensiero occidentale. Ed è in questo progetto che s’inserisce la maggior parte dei suoi lavori sulla storia delle idee. Berlin è una figura “controcorrente” rispetto al grande fiume della filosofia occidentale, e controcorrente sono spesso gli autori di cui si occupa. Berlin trae infatti la sua concezione di pluralismo da numerose fonti. In realtà le sue opere migliori consistono in gran parte proprio nell’interpretazione di pensatori che egli considera suoi precursori e ispiratori. Fra questi ad esempio Vico ed Herder, e, primo fra tutti, in ordine di tempo, Machiavelli. È Berlin stesso a raccontarcelo in un passaggio celebre di La ricerca dell’ideale, una delle pietre miliari della sua produzione. In questo scritto infatti, tracciando una sorta di resoconto autobiografico dell’evoluzione del suo pensiero attraverso lo studio della storia delle idee, Berlin racconta che, in una certa fase delle sue letture di studente ad Oxford, s’imbatté inevitabilmente nelle principali opere di Machiavelli. La lezione che ne trasse non furono però gli insegnamenti più ovvi sul modo di conquistare e conservare il potere politico, sulla forza e l’astuzia necessarie ai governanti per rigenerare la propria società e difenderla dai nemici interni ed esterni, o sulle principali qualità di governanti e cittadini affinché gli Stati prosperino. Ma ne trasse invece l’idea che Machiavelli ritenesse possibile restaurare qualcosa di simile alla Roma repubblicana, e credesse che per questo occorresse una classe dirigente di uomini tali da compendiare in sé le solide virtù pagane che avevano fatto grande Roma.
A tali virtù Machiavelli affianca inoltre la nozione di virtù cristiane, osservando che tali qualità non aiutano certo l’avvento del tipo di Stato che lui auspica. Chi si attiene alla morale cristiana è destinato infatti ad essere travolto dalla corsa sfrenata al potere di chi ambisce a ricreare e dominare la repubblica voluta da Machiavelli. Tuttavia egli non condanna le virtù cristiane, ma si limita ad osservare che le due morali sono incompatibili, senza che vi sia un criterio per stabilire quale sia la via giusta per gli uomini. Machiavelli lascia a noi la scelta, pur avendo delle preferenze ben precise. Ebbene, come ci dice Berlin stesso, tutto questo ebbe su di lui quasi l’effetto di uno “shock”, istillando nella sua mente l’idea che non tutti i valori supremi perseguiti dall’umanità, ora e in passato, fossero necessariamente compatibili tra loro. Questa consapevolezza veniva infatti a minare la sua precedente convinzione, basata sulla philosophia perennis, che non potesse esservi conflitto tra fini veri, tra risposte vere ai problemi centrali della vita, e poneva le basi di quella che sarà tutta la riflessione successiva di Berlin sul pluralismo etico. Ed è proprio questa l’idea centrale che anima il suo saggio su Machiavelli, la cui “originalità”, per Berlin, consiste proprio nell’aver contrapposto due “prospettive morali”, due “sistemi di valori” e due “insiemi di virtù” – quello cristiano e quello pagano –, e nell’aver capito che essi erano «incompatibili non solo in pratica, ma in linea di principio», ponendo così «un punto interrogativo permanente sulla strada della posterità» come conseguenza del «riconoscimento del fatto che dei fini ugualmente ultimi e ugualmente sacri possono contraddirsi reciprocamente, che interi sistemi di valori possono entrare in collisione senza possibilità di arbitrato razionale […] come parte della normale condizione umana»7. […] Per molti commentatori, ricorda Berlin, Il Principe non sarebbe altro che una tassonomia di tipi di governo e di governanti, e dei metodi per mantenerli. Tutto qui. Cosicché tali controversie poggerebbero interamente su un colossale fraintendimento di un testo di per sé eccezionalmente chiaro e moralmente neutrale. Ma la personale convinzione di Berlin è un’altra, e prima di rendercela nota, nel secondo paragrafo del suo saggio, espone, in forma concisa e ipersemplificata, ammette lui stesso, quelle che secondo lui furono le effettive idee di Machiavelli. Nell’interpretazione di Berlin, Machiavelli come gli scrittori romani Cicerone e Livio, i cui ideali aveva sempre presenti, crede che gli uomini cerchino l’appagamento e la gloria derivanti dalla creazione e preservazione, mediante uno sforzo comune, di una totalità sociale forte e ben governata. E in quest’impresa riuscirà solo chi conosce i fatti che contano. Vivere in uno stato di illusione porta infatti al fallimento, perché la realtà fraintesa o, peggio, ignorata, finisce inevitabilmente per sconfiggerti.
Per Machiavelli la miglior fonte di conoscenza di tali fatti è un misto di osservazione della realtà contemporanea e della saggezza dei migliori osservatori del passato. Ossia le grandi menti dell’antichità da cui Machiavelli ha imparato che uomini diversi perseguono scopi differenti, che necessitano di specifiche capacità. Ma perché ciascun gruppo possa perseguire i propri scopi peculiari sono necessari i governi, poiché non esiste nessuna mano celata capace di armonizzare in maniera spontanea tutte queste attività umane. Per Machiavelli esistono quindi delle tecniche di governo, anche se i fatti, e pertanto i metodi, per affrontarli, possano apparire in una luce diversa ad un governante e ai suoi sudditi. È una questione di prospettiva. La società umana precipiterà infatti nel caos e nella miseria, se non vi è a dirigerla uno specialista. E sebbene per Berlin, Machiavelli personalmente offra delle ragioni per preferire la libertà e il governo repubblicano, si danno situazioni in cui un principe forte è preferibile ad una repubblica debole. Ma secondo Berlin il fatto che esista un’arte del governare, indispensabile per il raggiungimento degli scopi che concretamente gli uomini perseguono, non significa che a Machiavelli non importasse nulla dell’uso che ne veniva fatto, o che si limitasse a produrre un manuale di direttive politiche scientifiche di per sé moralmente neutrale, wertfrei. In verità, per Berlin, Machiavelli dice chiaramente cosa desidera. L’osservazione empirica mostra infatti che gli uomini non sono quali li descrivono coloro che li idealizzano, come i cristiani o altri utopisti, o coloro che li vogliono diversi da ciò che di fatto sono. Essi sono perlopiù «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno»; sono inoltre arroganti e meschini, e la loro natura li porta all’insolenza quando i loro affari prosperano, e a un abietto servilismo quando sono colpiti dalle avversità. Poco gli importa della libertà, che situano molto al di sotto della sicurezza, della proprietà o del desiderio di vendetta. E queste ultime aspirazioni il governante è ragionevolmente in grado di soddisfarle. […] Soprattutto, Machiavelli ci ammonisce a stare in guardia contro coloro che non guardano agli uomini quali essi sono, e li vedono attraverso occhiali colorati dalle loro speranze e desideri nei termini di un modello idealizzato dell’uomo quale essi vogliono che sia. Riformatori onesti, come Pier Soderini o Savonarola, crollarono, causando la rovina di altri, proprio perché ad un certo punto caddero nell’irrealismo. Accomunati da una comprensione inadeguata di come si debba usare il potere, nel momento cruciale mostrarono entrambi di mancare del senso della verità effettuale in politica, di ciò che funziona in concreto.
Ciò che conduce alla rovina gli statisti sono infatti gli ideali irrealizzabili. È questo per Berlin che fa di Machiavelli un pensatore di prima grandezza. Machiavelli ha una visione ben chiara della società di cui auspica la nascita nel suo paese, forse addirittura nell’arco della sua vita personale, o comunque entro un futuro prevedibile. Sa che può essere creato, perché qualcosa di simile è stato realizzato in Italia in passato, o esiste in paesi come le città svizzere e tedesche, o i grandi Stati centralizzati del suo tempo. Il punto essenziale per Berlin tuttavia, non è solo che egli desideri ripristinare un tale ordine in Italia, ma che veda in esso la condizione maggiormente desiderabile che possa essere raggiunta dagli uomini, come dimostrato dalla storia e dall’osservazione. Machiavelli guarda soprattutto all’Atene di Pericle, e a quello che secondo lui è stato il periodo più grande della storia umana, ossia la Repubblica romana prima del suo declino, quando Roma governava il mondo. Una società infatti è buona se gode di stabilità, armonia interna, sicurezza, giustizia, senso di potenza e di splendore. E in quelle società vi erano uomini che sapevano rendere grandi le città, sviluppando negli uomini facoltà come la forza morale interiore, la magnanimità, il vigore, la vitalità, la generosità, la fedeltà, ma soprattutto lo spirito pubblico, il senso civico, la dedizione alla sicurezza, alla potenza, alla gloria e all’espansione della patria. L’antiqua virtus: è questo che per Machiavelli fa grandi gli Stati. […]
Le glorie dell’antichità possono essere risuscitate, purché sia possibile mobilitare uomini sufficientemente vigorosi, capaci e realisti. Può accadere che, per guarire dalle loro malattie le popolazioni degenerate, questi fondatori di nuovi Stati siano costretti a ricorrere a misure spietate, alla forza e all’inganno, al raggiro, alla crudeltà, al tradimento, al massacro di innocenti: provvedimenti chirurgici indispensabili per restituire un organismo deteriorato ad una condizione di buona salute. Anzi, tali qualità possono essere necessarie anche dopo che una società è stata risanata, poiché gli uomini sono deboli e sciocchi, e perennemente esposti al pericolo di scivolare al di sotto degli standard che soli possono mantenerli al livello richiesto. Ne segue perciò la necessità di conservarli nella giusta condizione mediante misure che sicuramente offenderanno la morale corrente. Ma se offendono questa morale, in qual senso può dirsi che sono giustificate? È questo secondo Berlin il punto nodale dell’intera concezione di Machiavelli. In un senso è possibile giustificarle e in un altro no? Sono questi sensi che occorre precisare con maggiore precisione di quanto Machiavelli abbia ritenuto necessario fare. Anzi, è proprio questo punto che Berlin vuole chiarire meglio. Per molti infatti, soprattutto Croce, Machiavelli separò la politica dalla morale, ossia raccomandò come politicamente necessari corsi d’azione su cui l’opinione corrente pronuncia una condanna morale: come camminare sui cadaveri per il vantaggio dello Stato. Per Berlin questa è una falsa antitesi. Secondo lui infatti Machiavelli pensa che i fini da lui invocati siano quelli cui, coloro che capiscono la realtà, dedicheranno la vita. E fini ultimi in questo senso sono valori morali. La distinzione di Machiavelli secondo Berlin non passa tra valori specificamente morali e valori specificamente politici; quella che egli realizza non è l’emancipazione della politica dall’etica o dalla religione, che molti considerano la sua grande conquista. Per Berlin Machiavelli stabilisce qualcosa di molto più profondo: una differenziazione tra due ideali di vita incompatibili, e quindi tra due morali. Una è la morale del mondo pagano, i cui valori sono il coraggio, il vigore, la forza d’animo nelle avversità, il bene pubblico, l’ordine, la disciplina, la felicità, la forza, la giustizia, e soprattutto la rivendicazione dei propri diritti e la conoscenza e il potere necessari per assicurarne la soddisfazione. Le cose cioè che per un lettore del Rinascimento Pericle aveva visto incarnate nella sua Atene ideale, e Livio aveva trovato nella vecchia Repubblica romana, quella di cui nella loro epoca Tacito e Giovenale lamentavano la decadenza e la morte. Questi sembrano a Machiavelli i momenti migliori dell’umanità, e da buon umanista rinascimentale vuole riportarli in vita.
Ma contro questo universo morale si leva la morale cristiana, i cui ideali sono la carità, la misericordia, il sacrificio, l’amor di Dio, la clemenza verso i nemici, il disprezzo per i beni di questo mondo, la fede nella vita dell’aldilà, la credenza nella salvezza dell’anima individuale per il suo incomparabile valore intrinseco (un valore del tutto incommensurabile rispetto a qualunque meta terrestre, sociale, politica o di altro tipo, a qualunque considerazione economica, militare o estetica). Machiavelli chiarisce però che con uomini che credono e praticano simili ideali, è per ragioni di principio impossibile costruire una comunità umana soddisfacente nell’accezione romana. Il punto non è solo l’inattingibilità dell’ideale a causa dell’imperfezione dell’uomo, del peccato originale, della sfortuna, dell’ignoranza, o dell’insufficienza dei mezzi materiali. Non è l’incapacità sul terreno pratico dei comuni esseri umani di innalzarsi a un livello di virtù cristiana sufficientemente alto, a rendere impraticabile l’edificazione, o anche solo il perseguimento dello Stato buono in senso cristiano. Semplicemente egli è convinto che le fondamentali virtù cristiane, aldilà del loro valore intrinseco, costituiscano ostacoli insuperabili alla costruzione del tipo di società da lui auspicato. Ossia quel tipo di società che egli suppone essere ciò che tutti gli uomini normali naturalmente vogliono, e cioè in grado di soddisfare i desideri e gli interessi permanenti degli uomini. Se gli esseri umani fossero diversi da ciò che sono, forse potrebbero creare una società cristiana ideale. Ma costruire società per esseri che non potranno mai abitare la terra può soltanto alimentare sogni e fatali illusioni. L’arte di governo si interessa all’azione entro i limiti delle possibilità umane: gli uomini possono essere cambiati, non però in misura esorbitante. Invocare norme ideali, adatte soltanto ad angeli, è un atteggiamento visionario ed irresponsabile che conduce alla rovina.
Machiavelli quindi, secondo Berlin, non contesta apertamente le nozioni comuni. Però un uomo deve scegliere. E scegliere di condurre una vita cristiana significa condannarsi all’impotenza politica, significa trovarsi usati e schiacciati da uomini potenti, ambiziosi, intelligenti e privi di scrupoli. Per Berlin il nocciolo della tesi di Machiavelli è di rilevanza cruciale per la teoria politica. Si tratta infatti di riconoscere che queste due mete entrambe desiderabili dagli esseri umani non sono tra loro compatibili. Per Machiavelli infatti gli uomini di solito, non potendo indursi a seguire risolutamente l’una o l’altra, «pigliono certe vie del mezzo che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti cattivi né tutti buoni»; essi si sforzano di fabbricare compromessi, vacillano, fanno scelte che non sono né carne né pesce, e finiscono col ritrovarsi deboli e col fallire le proprie mete. E tutto ciò che conduce all’inefficacia politica, ricorda Berlin, riscuote la condanna di Machiavelli. L’effetto generale dell’insegnamento cristiano è stato infatti di annientare lo spirito civico degli uomini ed indurli a sopportare le umiliazioni senza protestare, col risultato che i distruttori e i despoti incontrano ben poca resistenza. […]
Poiché Machiavelli scrive sul governo, il suo interesse va agli affari pubblici, alla sicurezza, alla felicità sulla terra, al mondo reale. E nel mondo reale, stanti gli immodificabili limiti dell’uomo, il codice predicato dalla chiesa cristiana non funziona. Così la comune convinzione, di cui la versione più nota ed influente è quella di Croce, secondo cui Machiavelli non si occupava di etica, o per dirla con le parole di Cochrane, «non negava la validità della morale cristiana, e non pretendeva che un delitto imposto dalla necessità politica non fosse un delitto», a parere di Berlin contiene due fraintendimenti fondamentali. Il primo è che lo scontro sia tra la “morale” e la “necessità politica”. L’implicazione è che vi sia un’incompatibilità tra la morale, la regione cioè dei valori ultimi, perseguiti in quanto fini a se stessi, e che è necessario riconoscere per poter parlare di delitti, o giustificare e condannare moralmente qualcosa, e la politica, ossia l’arte di adattare i mezzi ai fini, la regione delle abilità tecniche di quelli che Kant chiama gli “imperativi ipotetici”, i quali assumono la forma: «se vuoi ottenere x devi fare y» (per esempio tradire un amico, o uccidere un uomo innocente), senza necessariamente chiedersi se x sia intrinsecamente desiderabile o meno. È questo il nocciolo della separazione della politica dall’etica che Croce e molti altri attribuiscono a Machiavelli, e che secondo Berlin è un errore. Se per etica si intende infatti solo l’etica stoica, o cristiana, o kantiana, o certe forme di etica utilitaria, in cui la fonte e il criterio del valore sono dati dalla parola di Dio, o dalla ragione eterna, o da un qualche senso o conoscenza interiori del bene e del male, della ragione e del torto (voci che parlano direttamente e con un’autorità assoluta alla coscienza individuale), questa posizione potrebbe forse reggere.
Ma Berlin ci ricorda che esiste un’etica non meno veneranda: quella della polis greca, e di cui Aristotele fornì l’esposizione più chiara. Quella secondo cui gli uomini sono esseri fatti dalla natura per vivere in comunità, perciò i loro fini comuni costituiscono i valori ultimi da cui tutto il resto deriva. La politica infatti, l’arte di vivere in una polis, non è un’attività di cui quanti preferiscono la vita privata possano fare a meno, perché la condotta politica è intrinseca all’essere, un essere umano in un certo stadio della civiltà, e le sue esigenze sono quindi intrinseche al vivere una vita umana riuscita. È l’etica così concepita la specie di morale precristana che, secondo Berlin, Machiavelli dà per scontata. […] La seconda tesi che a Berlin sembra invece sbagliata, è invece l’idea che Machiavelli guardasse ai delitti della sua società con angoscia. Ciò implica che egli accetti le terribili necessità della raison d’état con riluttanza, perché non vede alternative. Ma di questo per Berlin non esiste alcuna prova, non vi è traccia di angoscia nelle sue opere politiche, nelle sue commedie e nelle sue lettere. Il mondo pagano che Machiavelli predilige è infatti costruito sul riconoscimento della necessità dell’impiego sistematico dell’inganno e della forza da parte dei governanti, ed egli sembra considerare naturale e per nulla eccezionale o moralmente angosciante che questi ultimi usino tali armi ogni qualvolta ciò sia necessario. Né la distinzione da lui tracciata è quella tra governanti e governati. I sudditi, o cittadini, debbono anche loro essere dei romani. Non hanno bisogno, è vero, della virtù dei governanti, perché se praticano anch’essi l’inganno le massime di Machiavelli non funzioneranno. È meglio anzi che siano poveri, militarizzati, onesti ed obbedienti. Tuttavia se conducono vite cristiane, accetteranno troppo docilmente di essere governati da meri sopraffattori. Nessuna repubblica sana può essere costruita con tali uomini. Per Berlin è tuttavia il primo fraintendimento, quello che presenta un Machiavelli poco o nulla interessato alle questioni morali, ad avere le conseguenze più profonde. E secondo lui non può sicuramente invocare in suo appoggio il linguaggio di Machiavelli. Perché un uomo il cui pensiero è incentrato su concetti come il buono e il cattivo, il corrotto e il puro ha necessariamente in mente una scala etica alla cui stregua pronuncia l’elogio e il biasimo morale. I valori di Machiavelli non sono i valori cristiani, ma sono comunque valori morali. […]
Il motivo centrale che percorre il Principe e i Discorsi, quali che siano le discrepanze, è quindi il medesimo: il sogno sociale e politico di Machiavelli. Egli si propone infatti di riscattare l’Italia da una condizione squallida e servile, per restituirle la salute e il vigore. L’idea morale per la quale a suo giudizio nessun sacrificio è troppo grande – il bene della patria – è per lui la forma suprema di esistenza sociale raggiungibile dall’uomo. Per chi quindi considera i metodi politici da lui raccomandati moralmente detestabili o troppo orribili, Machiavelli non ha nessuna risposta. Ciascuno ha tutto il diritto di condurre una vita moralmente buona, di essere un privato cittadino (o un monaco), di cercarsi un suo proprio angolo in cui appartarsi. Ma non dovrà farsi responsabile delle vite altrui o aspettarsi la buona fortuna, dovrà piuttosto aspettarsi di esser ignorato o distrutto. Esistono due mondi: quello della morale personale e quello dell’organizzazione pubblica. Esistono due codici etici entrambi ultimi, due alternative assolute costituite da due sistemi da valori in conflitto. Se un uomo sceglie la prima via del bene, verosimilmente dovrà abbandonare ogni speranza di una vita tollerabile sulla terra, poiché gli uomini non possono vivere fuori della società, e non sopravvivranno, in quanto collettività, se a guidarli sono uomini (come Soderini) influenzati dalla prima morale, l’esito sarà infatti uno stato di degradazione non semplicemente politica, ma morale. Se invece un uomo sceglie, come personalmente ha fatto Machiavelli, la seconda via, dovrà reprimere i suoi scrupoli privati, se ne ha, perché chi è troppo schizzinoso durante il rifacimento di una società, o anche solo durante la fase del perseguimento e quella della preservazione della sua potenza e della sua gloria, finirà in malora. Chiunque abbia scelto di fare una frittata non potrà farla se non rompendo le uova. Ma anche se, ricorda Berlin, Machiavelli è spesso accusato di guardare con eccessivo compiacimento alla prospettiva di rompere le uova, quasi ne provasse piacere, in realtà egli ritiene che questi metodi spietati siano necessari solo come mezzi per ottenere buoni risultati. Una volta che ci si è imbarcati in un progetto per la trasformazione di una società, bisogna infatti condurlo in porto a ogni costo: titubare, farsi vincere dagli scrupoli, significa tradire la causa abbracciata. Essere un medico significa essere un professionista, pronto a bruciare, a cauterizzare, ad amputare, se questo è ciò che la malattia esige. Fermarsi a mezza strada a causa di scrupoli personali è solo segno di confusione e di debolezza, e non potrà che produrre il peggio dell’una e dell’altra via.
Per Berlin quindi, Machiavelli non moraleggia genericamente, ma illustra una tesi specifica: che la natura degli uomini impone una morale pubblica la quale è diversa da, e può entrare in collisione con, le virtù degli uomini che professano di credere nei precetti cristiani. Si può dissentire, dice Berlin. Si può sostenere che la grandezza, la gloria e la ricchezza di uno Stato sono ideali vacui, o detestabili, se i cittadini sono oppressi o trattati come semplici mezzi asserviti allo splendore del tutto. Anzi, suggerisce Berlin, come i pensatori cristiani, o come Constant e i liberali, oppure come Sismondi e i teorici del welfare state, si può preferire uno Stato in cui i cittadini prosperano anche se l’erario pubblico è povero, in cui il governo non è né centralizzato né onnipotente, o magari non detiene affatto poteri sovrani e in cui cittadini godono di un alto grado di libertà individuale. È lecito mettere favorevolmente a confronto questa situazione con le grandi, autoritarie concentrazioni di potere costruite da Alessandro, Federico il Grande, Napoleone, o dai grandi autocrati del ventesimo secolo. Ma se la pensiamo così per Berlin non facciamo altro che contraddire la tesi di Machiavelli, il quale non vede alcun merito in organismi politici strutturalmente deboli. Essi non possono durare. Machiavelli è convinto infatti che gli stati che hanno perso l’appetito del potere siano condannati alla decadenza, e siano verosimilmente destinati a essere distrutti da vicini più vigorosi e meglio armati. Egli è posseduto dalla visione chiara di una società in cui i talenti degli uomini possono essere messi al servizio di una potente e splendida totalità. Preferisce il sistema repubblicano, in cui gli interessi dei governanti non configgono con quelli dei governati. Ma pensa sia meglio un principato ben governato che una repubblica in declino, e le qualità cui va la sua ammirazione, e che ritiene possibile saldare insieme in una società capace di durare, non sono diverse nel Principe e nei Discorsi: energia, coraggio, abilità pratica, immaginazione, vitalità, autodisciplina, sagacia, spirito pubblico, buona fortuna, antiqua virtus. Anche i malvagi consigli dati ai principi non sono altro che descrizioni dei metodi necessari a questo scopo: la visione classica, umanistica e patriottica che lo domina. Le sue massime hanno infatti tutte un elemento in comune: mirano a creare, a risuscitare, o mantenere un ordine capace di soddisfare quelli che secondo l’autore sono gli interessi più stabili e costanti degli uomini. I valori di Machiavelli possono essere sbagliati, pericolosi, odiosi. Ma egli non è un cinico. Lo scopo è sempre lo stesso: uno Stato concepito sul modello dell’Atene periclea o di Sparta, ma soprattutto della Repubblica romana. Uno scopo del genere, cui tende, in forza della loro natura, il desiderio degli uomini “giustifica” qualunque mezzo. E nel giudicare i mezzi, bisogna guardare solamente al fine: la salvezza dello stato, perché se lo stato affonda, tutto è perduto. Cosa dunque, nelle sue parole, nel suo tono, ha causato un tale raccapriccio nei suoi lettori? Per Berlin la grande originalità e le tragiche implicazioni delle tesi di Machiavelli risiedono nel loro rapporto con una civiltà cristiana. Vivere alla luce degli ideali pagani in un’epoca pagana andava benissimo; ma predicare il paganesimo più di mille anni dopo il trionfo della cristianità significava farlo dopo la perdita dell’innocenza. E con ciò stesso costringere gli uomini a fare una scelta consapevole. La scelta è dolorosa perché si tratta di scegliere tra due interi mondi. Gli uomini sono vissuti in entrambi, e hanno combattuto e sono morti per salvare l’uno contro l’altro. Machiavelli ha optato per uno dei due, e per amore di questo è disposto a qualsiasi delitto. Uccidendo, ingannando e tradendo, i principi e i repubblicani di Machiavelli compiono atti malvagi non condonabili alla stregua della morale comune. Tuttavia per Berlin il grande merito di Machiavelli è che egli non nega questo punto. […]
Berlin, a differenza di molti, non considera Machiavelli come colui che ha coniato, o per lo meno ha difeso quella che in seguito sarebbe stata chiamata raison d’état, Staatsrason, ragion di Stato, ossia la giustificazione di atti immorali quando siano compiuti, in circostanze eccezionali, nell’interesse dello Stato. Per i difensori della raison d’état infatti, l’unica giustificazione di queste misure è che esse sono eccezionali, che sono necessarie per preservare un sistema il cui scopo è precisamente di far sì che non emerga la necessità di simili odiosi provvedimenti, cosicché atti del genere si giustificano solo in quanto porranno fine alla situazione che li rende indispensabili. Per Machiavelli invece queste misure sono in un certo senso normalissime. Certo, vi si ricorre soltanto in caso di estremo bisogno, ma la vita politica tende a generare in gran numero questi stati di bisogno. La nozione di raison d’état implica un conflitto di valori che per uomini moralmente buoni e sensibili può risultare angoscioso. Per Machiavelli invece non vi è conflitto. La vita pubblica ha la sua propria morale, rispetto alla quale i principi cristiani (o qualunque sistema di valori personali assoluti) costituiscono tendenzialmente un inutile ostacolo. Questa vita ha i suoi propri standard: non richiede imperativamente il terrore perpetuo, ma approva, o quanto meno permette, l’uso della forza quando questo è necessario per promuovere i fini della società politica. Il conflitto morale provocato da questa situazione turberà soltanto quanti non sono disposti ad abbandonare nessuna delle due vie, coloro che credono che le due incompatibili forme di vita siano invece conciliabili. Nessuno aveva mai affermato questo, e, secondo Berlin, Machiavelli colmò la lacuna. L’uomo dunque è costretto a scegliere: e nello scegliere una forma di vita rinuncia all’altra. È questa per Berlin l’implicazione centrale. Se Machiavelli ha ragione infatti, se è in linea di principio, o di fatto, impossibile essere moralmente buoni e fare il proprio dovere nel senso in cui lo concepiva la comune etica europea, specialmente quella cristiana, e al contempo costruire l’Atene di Pericle o la Roma della Repubblica, allora per Berlin si impone una conclusione di importanza capitale: che la credenza secondo la quale è in linea di principio possibile scoprire la soluzione giusta, oggettivamente valida, del problema di come gli uomini debbono vivere non è vera per motivi di principio.
Tuttavia, per chiarire meglio tale conclusione, Berlin ritiene sia necessario situarla nel suo contesto appropriato: uno dei presupposti più profondi del pensiero politico occidentale infatti, è la dottrina, virtualmente mai messa in questione durante tutta la sua lunga egemonia, secondo cui esiste un qualche principio che oltre a regolare il corso del sole e delle stelle, prescrive a tutte le creature animate il giusto comportamento. Gli animali e gli esseri infra-razionali di ogni specie vi si conformano per istinto; gli esseri superiori ne acquistano consapevolezza, e sono liberi di abbandonarlo, salvo incorrere nella propria rovina. Questa dottrina, in varie versioni, come ci dice Berlin, ha dominato il pensiero europeo fin da Platone, comparendo sotto varie forme e generando molte similitudini e allegorie. L’idea del mondo e della società umana come un’unica struttura intelligibile è infatti alla radice di tutte le numerose versioni della legge di natura. Ed il progresso delle scienze naturali generò versioni di questa immagine di impronta più empirica, con similitudini antropologiche, biologiche, estetiche, psicologiche che hanno rispecchiato le idee dominanti delle varie epoche. È questo il modello monistico unificatore che per Berlin sta al centro del razionalismo tradizionale (religioso, estetico, metafisico, scientifico, trascendentale e naturalistico) che ha caratterizzato la civiltà occidentale. È questa pietra angolare su cui avevano poggiato le credenze e la vita dell’Occidente, che a suo parere Machiavelli sembra aver mandato in pezzi. […]
Secondo Berlin dunque, Machiavelli svelerebbe in questo modo il bluff implicito nei fondamenti stessi della tradizione filosofica centrale dell’Occidente, ossia la credenza nella compatibilità conclusiva di tutti i valori autentici. E quanto a lui, non è per nulla scosso. Ha fatto la sua scelta. E l’aver abbandonato la morale occidentale tradizionale non sembra minimamente preoccuparlo, in effetti, sembra che quasi non se ne renda conto. In quest’ottica la conquista capitale di Machiavelli è di aver portato alla luce questo dilemma insolubile, piantando un punto interrogativo permanente sulla via della posterità. Un punto interrogativo derivante dal suo riconoscimento de facto che fini altrettanto ultimi, altrettanto sacri, possono contraddirsi reciprocamente, che interi sistemi di valori possono entrare in collisione senza che sia possibile un arbitrato razionale; e ciò non solo in circostanze eccezionali, per effetto di anomalie o di accidenti o errori, ma come parte della normale condizione umana. Berlin precisa che non intende dire che Machiavelli affermi esplicitamente l’esistenza di un pluralismo, o anche solo un dualismo, di valori, tra i quali bisogna ineluttabilmente scegliere. Ma ciò segue necessariamente dalle contrapposizioni che egli delinea tra la condotta che ammira e quella che condanna. E se ciò è vero, ne risulta allora scalzato un presupposto fondamentale del pensiero occidentale: ossia che in qualche luogo, nel passato o nel futuro, in questo mondo o nel prossimo, in chiesa o in laboratorio, nelle speculazioni del metafisico o nelle risultanze dello scienziato sociale, o nel cuore incorrotto del semplice brav’uomo, può essere trovata la soluzione definitiva del problema di come gli uomini devono vivere. Infatti, se questo presupposto è falso, e se possono darsi più risposte egualmente valide alla domanda, allora lo è, crolla l’idea dell’unico vero, oggettivo, universale ideale umano. E la stessa ricerca volta a individuarlo diventa, non semplicemente utopica sul terreno pratico, ma concettualmente incoerente. Per Berlin è chiaro che ciò potesse risultare inaccettabile per uomini, sia credenti che atei, che si erano formati in un sistema monistico, religioso o comunque morale, sociale o politico. Per costoro nulla poteva essere più sconvolgente di una breccia nell’orizzonte monistico stesso. E sarebbe dunque questo, secondo Berlin, il pugnale di cui parla Meinecke, con cui Machiavelli inferse la ferita mai più sanata. Anche se ha ragione Gilbert nel ritenere che personalmente egli non ne portasse la cicatrice: rimase infatti un monista “pagano”. Perché confuse la proposizione che gli ideali ultimi possono essere tra loro incompatibili con quella, molto diversa, che gli ideali umani di carattere più convenzionale sono irrealizzabili, e che quanti agiscono sulla base del presupposto contrario sono stupidi, e qualche volta pericolosi. Attribuendo questa dubbia proposizione all’antichità era convinto che essa fosse verificata dalla storia. Ma se la prima asserzione colpisce alla radice tutte le dottrine che credono nella possibilità di attingere, o almeno di formulare, soluzioni finali; la seconda è invece empirica, banale e non autoevidente. E in ogni caso, ci spiega Berlin, le due proposizioni non sono identiche, né logicamente collegate. Machiavelli dunque non afferma un dualismo, ma si limita a dare per scontata la superiorità dell’antiqua virtus romana sulla vita cristiana. Tuttavia, chiunque creda nella morale cristiana e consideri la comunità cristiana come la sua incarnazione, ma al tempo stesso accetti in buona parte la validità dell’analisi politica di Machiavelli, e non rifiuti il retaggio secolare di Roma, ha di fronte un dilemma che, se Machiavelli ha ragione, non è semplicemente irrisolto: è insolubile. Dopo Machiavelli dunque, secondo quanto sostiene Berlin, tutte le costruzioni monistiche sono esposte al contagio del dubbio. […]
Eppure egli è, suo malgrado, sottolinea Berlin uno dei padri del pluralismo, e della (per lui) pericolosa accettazione della tolleranza che ne consegue. Spezzando l’unità originaria infatti, Machiavelli contribuì a creare negli uomini la consapevolezza dell’ineluttabile necessità di compiere scelte tormentose fra alternative incompatibili nella vita pubblica e in quella privata. Questo dilemma, una volta emerso alla luce, non ha più cessato di tormentare gli uomini. Anche se, indubbiamente, sul terreno pratico gli uomini avevano già fatto abbastanza spesso l’esperienza del conflitto che Machiavelli rese esplicito. E come ci ricorda Berlin la ferita di cui parlò Meinecke non fu più sanata: perché non sempre conoscere il peggio significa liberarsi dalle sue conseguenze. Tuttavia è preferibile all’ignoranza. Ed è questa la dolorosa verità che secondo lui Machiavelli ha imposto alla nostra attenzione. Non formulandola esplicitamente, certo, ma relegando buona parte della morale tradizionale (senza criticarla, ma forse, per Berlin, con un’efficacia proprio per questo tanto maggiore) nel regno di Utopia. Sono queste dunque le conclusioni finali del saggio di Berlin. Ma quali sono, invece, le conclusioni che possiamo trarre noi dalle sue riflessioni su Machiavelli? Lo scopo di questo lavoro non è certo quello di sostenere la ‘tesi’ di Berlin, o di Croce, o di qualcun altro. Anche se personalmente ritengo si possa affermare che l’interpretazione di Berlin abbia una sua plausibilità, e che egli non difetti certo nel portare argomenti a suo sostegno. Del resto, come ricorda Gennaro Sasso11, che pur l’ha criticata, sono vari i “forerunners” di Berlin che hanno sostenuto tesi analoghe alla sua. Lo stesso Berlin, inoltre, non pretende certo di avere l’ultima parola sull’argomento. Il suo saggio si conclude anzi con queste parole: «Quando le interpretazioni che tengono il campo superano la ventina, aggiungerne un’altra non può essere considerato un’impertinenza. Nel caso peggiore, sarà stato un ennesimo tentativo di risolvere un problema, vecchio ormai di oltre quattro secoli, di cui alla fine della sua lunga vita Croce disse: “Una questione che forse non si chiuderà mai: la questione del Machiavelli”»12. Quello che allora può essere importante sottolineare, è che giudicare il valore del suo saggio sulla base della mera plausibilità interpretativa potrebbe risultare piuttosto riduttivo. Mentre valutarlo alla luce della capacità di Berlin di farci riflettere, ancora una volta, sui preconcetti insiti nel pensiero occidentale, con il portato di fanatismo, coercizione, persecuzione e intolleranza che questi hanno comportato, e di confrontarli con le possibilità, da questo punto di vista salutari, che il pluralismo sembra invece implicare, con la sua propensione alla tolleranza e al compromesso, non solo potrebbe rendere forse maggior giustizia al valore del saggio di Berlin, ma ci permetterebbe anche di portare la discussione sul pensiero di Machiavelli in un contesto più ampio. Ossia quello sempre attuale della riflessione sul rapporto tra politica e morale, senza la tentazione di appiattire il dibattito su Machiavelli sulla semplice indagine filologica. I meriti delle considerazioni di Berlin su Machiavelli vanno quindi cercati, forse, non solo nel suo tentativo di inserirle nel quadro più vasto e complesso della storia delle idee, interrogandosi su come il pensiero di Machiavelli, con la consapevolezza che egli involontariamente avrebbe reso manifesta, abbia influito e ancora influisca sulla storia del pensiero. Ma anche nel tentativo di svelare la validità permanente di alcune sue idee di fronte ai problemi del presente. Stimolando così, attraverso la ricostruzione della rottura prodotta da Machiavelli nella tradizione monistica che per secoli ha dominato l’Occidente, una ricca serie di riflessioni che, focalizzandosi sul concetto di pluralismo, si pongono al centro del dibattito etico-politico contemporaneo.