Nella sua più che quarantennale attività di ricerca, Quentin Skinner si è misurato con il pensiero di Machiavelli in due modi diversi. Per un verso, si è sforzato di elaborare un’interpretazione storica di Machiavelli, rintracciando i contesti intellettuali più significativi per la comprensione delle tesi di fondo del Segretario fiorentino; per l’altro, si è rifatto a Machiavelli con intento squisitamente teorico nel quadro del suo tentativo di recuperare il repubblicanesimo, ed il suo ideale di libertà, come terza via praticabile nel dibattito normativo contemporaneo tra liberali e comunitari. Si deve guardare pertanto a due gruppi di testi: da un lato, ai suoi contributi di taglio storico, in primo luogo ai lavori della fine degli anni settanta e degli anni ottanta all’interpretazione consegnata al primo tomo di The Foundations of Modern Political Thought (1978), al libro su Machiavelli del 1981, al saggio Machiavelli’s Discorsi and the Pre-Humanist Origins of Republican Ideas, apparso nel volume da lui curato dal titolo Machiavelli and Republicanism (1990); dall’altro, all’appassionante work in progress che si apre con lo studio su Machiavelli on the Maintenance of Liberty, del 1983, prosegue con l’importante serie di saggi degli anni ’80 su The Idea of Negative Liberty (1984) e su The Paradoxes of Political Liberty (1986), trova una sua articolata sistemazione nelle pagine di Liberty before Liberalism, del 1998, ed una ulteriore messa a punto nel testo della “Isaiah Berlin Lecture”, A Third Concept of Liberty, apparso nel 2002. Due tipi di letture delle pagine di Machiavelli, dunque, consegnate a testi sensibilmente differenti per struttura e taglio espositivo. Due approcci diversi, che trovano però la loro unità di fondo nella presentazione di Machiavelli come pensatore repubblicano e teorizzatore di una nozione di libertà che ha ancora molto da dire a noi contemporanei. Si può osservare, sempre in via introduttiva, che Skinner ha mantenuto fede a questa interpretazione, elaborata sul finire degli anni settanta e nei primi anni ottanta, nel corso degli anni successivi. Se si prendono in esame alcuni testi dell’ultimo decennio, da Liberty before Liberalism a Visions of Politics (2002) a Hobbes and Republican Liberty (2008) si può mettere in luce come egli sia in sostanza rimasto fedele a quella tesi interpretativa, offrendo degli approfondimenti terminologici e concettuali, ma non delle significative revisioni. Si può parlare, così, di puntualizzazioni ed, eventualmente, di spostamenti di accento, ma non di significativi mutamenti nella presentazione del pensiero di Machiavelli e, più in generale, del pensiero politico moderno, dei suoi configgenti vocabolari e delle sue contrastanti tradizioni.
2.
Si può avviare il discorso prendendo in considerazione il modo in cui Skinner legge Machiavelli vestendo i panni dello storico. Può essere opportuno ricordare, a questo proposito, alcune interpretazioni delle opere del Segretario fiorentino che tenevano il campo nella cultura anglosassone negli anni in cui Skinner cominciava le sue ricerche sul pensiero del Rinascimento. È sufficiente fare due nomi: quelli di Leo Strauss e di Isaiah Berlin. Leo Strauss, fin dagli anni Cinquanta, aveva presentato Machiavelli come l’autore che abbandona in modo esiziale gli assunti “della filosofia politica classica” e ne sviluppa di radicalmente opposti, aprendo la via alla filosofia politica moderna, a Hobbes e a Spinoza, in particolare. Isaiah Berlin, negli stessi anni, rintracciava invece l’originalità di Machiavelli non nell’asserzione dell’autonomia della politica dall’etica, come aveva preteso Croce, ma nel suo contrapporre i valori e gli ideali di fondo dell’etica pagana ai valori e agli ideali della morale cristiana Skinner nel suo lavoro di storico dimostrerà di conoscere, e discuterà, larga parte della storiografia novecentesca su Machiavelli: da quella dell’emigrazione tedesca, dalle opere di Hans Baron e di Felix Gilbert, per lui particolarmente importanti, a buona parte di quella italiana, ai lavori di Federico Chabod e di Eugenio Garin, ad esempio. Ma terrà sempre presente come bersaglio polemico le tesi di Leo Strauss e della sua scuola e si rifarà con costanza, come ad un illuminante punto di riferimento, a quanto sostenuto da Isaiah Berlin sull’originalità di Machiavelli. Se Strauss aveva sostenuto che Machiavelli era l’uomo responsabile più di ogni altro di aver rotto con la Grande Tradizione, Skinner quando affronta Machiavelli da storico si interroga invece su quali siano le tradizioni a cui ricondurre il pensiero del Segretario fiorentino, o, meglio, si domanda quali siano i contesti intellettuali sullo sfondo dei quali leggere le sue tesi. Ne individua sostanzialmente due: uno più prossimo ed uno più remoto. Quello più remoto è costituito, ovviamente, dalle fonti romane: dai testi di filosofi come Cicerone e Seneca, dai lavori di storici come Sallustio e Tito Livio stesso. Quello più prossimo è costituito, invece, dalle riflessioni sull’autogoverno cittadino, dalle tesi di tipo repubblicano, elaborate in ambiente comunale a partire dalla fine del dodicesimo secolo. […]
[Quentin Skinner …] si dimostra convinto che il pensiero di Machiavelli possa essere inteso a pieno quando inserito o rapportato a questi contesti: al modo in cui fa propria la lezione di storici e filosofi romani, prendendo peraltro le distanze da molti loro assunti, al modo in cui riformula in modo critico le tesi repubblicane elaborate in ambiente pre-umanistico e umanistico Ma se a questo punto ci chiedessimo “quale Machiavelli è al centro dell’interesse di Skinner?” non potremmo avere dubbi sulla risposta. Non tanto l’autore del Principe, ma il teorico di una forma repubblicana di autogoverno, l’autore dei Discorsi. Skinner lo riconosce esplicitamente nella pagina di apertura del suo libro su Machiavelli, quando sostiene di aver «trattato Machiavelli essenzialmente come esponente di una peculiare tradizione umanistica di repubblicanesimo classico» (Machiavelli, tr.it. p.7). Così se si apre il volume, non può stupire che nel secondo capitolo dal titolo “Il consigliere del principe” Machiavelli venga presentato come l’assertore di una “nuova moralità”, di quella “political morality” su cui Skinner tornerà ancora in un saggio del 1998. Così come non può sorprendere che il terzo capitolo, dedicato interamente ai Discorsi, rechi come titolo “Il filosofo della libertà”. Skinner lascia intendere fra le righe che Machiavelli ha avuto un’evoluzione teorica ed è divenuto il filosofo della libertà: il Machiavelli più importante è il Machiavelli “finale” delle pagine dei Discorsi. […]
Tanto nelle pagine di The Foundations, quanto nel volumetto del 1981, infatti, la riflessione di Machiavelli non viene affrontata in modo unitario, ma le sue due opere principali vengono considerate in capitoli separati. Nel primo l’attenzione si concentra ovvia mente sulle elaborazioni de Il principe; nel secondo su quelle dei Discorsi. Skinner sceglie questa strategia espositiva per mantenere fede ai suoi assunti metodologici di partenza, messi a punto a partire dalla metà degli anni sessanta, in una serie di saggi metodologici di grande impegno. Già in Meaning and Understanding in the History of Ideas, del 1969, polemizzando contro la mitologia della coerenza fatta propria dagli storici, contro la loro pretesa di risolvere antinomie e contraddizioni presenti in testi diversi dello stesso autore, o addirittura nello stesso testo, aveva fatto riferimento proprio alle differenze esistenti tra Principe e Discorsi. […]
In The Foundations, le tesi de Il principe vengono inserite, come si è accennato, in più contesti intellettuali. In uno più lontano, fornito dai testi di consigli al podestà e ai magistrati, ed uno più prossimo, la letteratura di “specula principum” sviluppatasi in particolare nella seconda metà del Quattrocento, a cui contribuirono tra gli altri Francesco Patrizi, Bartolomeo Sacchi, il Platina, e Giovanni Pontano. Per Skinner, soltanto se si tengono presenti questi contesti si può cogliere a pieno anche la critica avanzata da Machiavelli ai valori umanistici, l’originalità e persino il carattere “rivoluzionario” delle sue tesi. Skinner afferma senza esitazione che Il Principe «succeded in making a contribution to the genre of advice-books for princes which at the same time revolutionized the genre itself» (Foundations, vol.I, p.118). Machiavelli condivide con gli scrittori di “specula principum” alcuni valori ed alcuni ideali che questi ultimi, a loro volta, avevano sostanzialmente ereditato dagli “umanisti civici” del primo Quattrocento. Il principe, innanzitutto, viene presentato come colui che si propone di perseguire onore e gloria, in massimo grado. Come incarnazione somma del vir virtutis, il principe può resistere ai colpi della Fortuna, può in gran parte evitare i danni della sua costitutiva instabilità. Nel volumetto del 1981, in particolare, Skinner si sofferma dapprima a chiarire l’immagine classica del ruolo della Fortuna negli affari umani, analizzando pagine di Cicerone e di storici come Livio e Sallustio; ricostruisce poi i mutamenti dell’immagine della Fortuna in età cristiana, il suo progressivo configurarsi come ancilla dei, assumendo come testo esemplare la Consolazione della filosofia di Boezio; per mettere in luce, infine, come gli umanisti, e lo stesso Machiavelli, ritornino a pensare la Fortuna in termini classici e recuperino nel contempo un’idea classica della libertà umana. Per opporsi all’instabilità della fortuna, secondo gli umanisti, l’uomo politico, ed in particolare il principe, deve possedere e dispiegare in sommo grado tutte le virtù: e per gli umanisti si trattava sostanzialmente delle quattro virtù cardinali variamente elencate dai filosofi morali dell’antichità – su tutti da Cicerone, sulle orme di Platone, nelle sezioni iniziali del De officiis – e di una serie di qualità o di virtù, quali l’onestà, la magnanimità, la generosità, che per la loro natura venivano considerate particolarmente convenienti ad un principe. Ma già a questo proposito, a proposito del modo di intendere la virtù, si apriva il dissenso sistematico di Machiavelli. Per un verso, dunque, «the format, the presuppositions and many of the central arguments of The Prince make it a recognisable contribution to a well-established tradition of later quattrocento political thought»; per un altro verso, non appena si giunga ai capitoli centrali del Principe, non appena si prenda in considerazione come Machiavelli concettualizza la virtù, emerge pienamente che egli si proponeva «to question or even to ridicule» alcuni dei valori sostenuti dagli autori degli “specula principum”, e che più in generale, per molti aspetti, «he was in fact concerned to challenge and repudiate his own humanist heritage» (Foundations, vol.I, p.129). Skinner fa così tesoro delle conclusioni cui era giunto Felix Gilbert nel celebre saggio The Humanist Concept of Prince and the Prince of Machiavelli, apparso per la prima volta nel 1939, ed in alcuni passi giunge a riprenderle quasi in termini letterali. Machiavelli condivide con gli scrittori di “specula principum” alcuni valori ed alcuni ideali che questi ultimi, a loro volta, avevano sostanzialmente ereditato dagli “umanisti civici” del primo Quattrocento. Il principe, innanzitutto, viene presentato come colui che si propone di perseguire onore e gloria, in massimo grado. Come incarnazione somma del vir virtutis, il principe può resistere ai colpi della Fortuna, può in gran parte evitare i danni della sua costitutiva instabilità. Nel volumetto del 1981, in particolare, Skinner si sofferma dapprima a chiarire l’immagine classica del ruolo della Fortuna negli affari umani, analizzando pagine di Cicerone e di storici come Livio e Sallustio; ricostruisce poi i mutamenti dell’immagine della Fortuna in età cristiana, il suo progressivo configurarsi come ancilla dei, assumendo come testo esemplare la Consolazione della filosofia di Boezio; per mettere in luce, infine, come gli umanisti, e lo stesso Machiavelli, ritornino a pensare la Fortuna in termini classici e recuperino nel contempo un’idea classica della libertà umana […]
Sia nelle pagine di The Foundations, sia in quelle del volume del 1981, Skinner mostra come la distanza di Machiavelli sia massima dalla cultura umanistica a lui precedente innanzitutto nel suo attribuire un ruolo decisivo alla forza pura in politica: nel suo insistere sull’importanza non solo delle buone leggi, ma anche e soprattutto delle buone armi, per tutti coloro che vogliano “mantenere lo stato”, nel suo riconoscere dunque una relazione costitutiva tra politica e guerra. Con precise argomentazioni, chiarisce poi come i capitoli centrali de Il Principe, dal quindicesimo al diciottesimo, possano e debbano essere letti come un consapevole svuotamento e rovesciamento del modo umanistico di concettualizzare le virtù, che spesso trovava i suoi modelli nel De officiis di Cicerone e nel De clementia di Seneca. Con queste argomentazioni, Skinner ancora una volta mette in pratica i suoi assunti metodologici, che era venuto elaborando confrontandosi con l’eredità del Wittgenstein delle Philosophical Investigations e dell’Austin di How to do Things with Words. Convinto che nel linguaggio sia possibile distinguere almeno due dimensioni, la dimensione del significato e la dimensione dell’azione linguistica, si chiede con costanza che cosa gli autori stessero facendo quando scrivevano quelle pagine o quei testi, che tipo di azione linguistica stessero compiendo. Nel caso di Machiavelli e di quanto da lui sostenuto nei capitoli centrali de Il Principe la risposta è univoca: il Segretario fiorentino stava rovesciando alcuni valori di fondo della tradizione umanistica, ed in particolare il modo di pensare le virtù. Machiavelli e gli scrittori di “specula principum”, dunque, sono in perfetto accordo sui fini che il principe deve perseguire nel suo agire; differiscono radicalmente, però, sulla natura dei metodi, dei mezzi, ritenuti necessari per conseguire quei fini. Skinner prende così posizione senza alcuna ambiguità su una controversa questione interpretativa. Prende esplicitamente le distanze dalla nota tesi crociana secondo cui in questi capitoli del Principe e, più in generale, nella sua riflessione politica complessiva Machiavelli rivendica apertamente l’autonomia della politica dall’etica. Skinner è perfettamente consapevole che la tesi crociana è stata ripresa da molti interpreti novecenteschi, ma non ha dubbi però nel sostenere che Machiavelli non propone «a view of politics as divorced from morality»; è convinto bensì che Machiavelli contrapponga alle richieste dell’etica cristiana e a quelle dell’etica stoica, ciceroniana e senecana, gli imperativi di una differente forma di etica, di una forma che si potrebbe dire di “political morality. Skinner riformula in tal modo la tesi proposta a suo tempo da Isaiah Berlin e scrive senza esitazione: «the essential contrast is rather between two different moralities – two rival and incompatible accounts of what ought ultimately to be done» (Foundations, vol.I, p.135). […]
Anche per i Discorsi Skinner utilizza il genere di esposizione a cui aveva fatto ricorso per illustrare caratteri ed originalità de Il Principe. Individua ed enumera dapprima gli assunti, che Machiavelli condivide con la cultura umanistica, per passare poi a mettere in evidenza le tesi sue peculiari, i punti in cui si diparte dalle credenze condivise ed espone convinzioni peculiarmente sue. Per comprendere le tesi dei Discorsi, Skinner guarda da vicino ad almeno due contesti: alle elaborazioni repubblicane degli umanisti civici della generazione di Leonardo Bruni ed al «revival of Florentine Republicansim» che si ebbe nei primi tre decenni del Cinquecento ed ebbe come protagonisti, oltre a Machiavelli, figure come quelle di Francesco Guicciardini o Donato Giannotti. I Discorsi, come libero commento all’opera storica di Livio ed al contempo testo di riflessione politica, non sono facilmente riconducibili ad un genere letterario. Gli accostamenti che sono stati tentati ai Rerum memorandarum libri di Francesco Petrarca e ai Miscellaneorum centuria prima di Poliziano si sono dimostrati non convincenti e risolutivi. Skinner, pertanto, nel mettere in evidenza ciò che lega i Discorsi alla cultura umanistica, comincia giustamente dalla condivisione di una serie di valori o di ideali. Nelle pagine di The Foundations, sostiene che il primo valore che Machiavelli condivide con gli altri umanisti fiorentini è quello della libertà politica. Libertà, anche per Machiavelli, significa innanzitutto indipendenza, indipendenza dalle aggressioni esterne, e autogoverno repubblicano, quella forma di autogoverno che metta del tutto al sicuro dalla tirannia. Skinner insiste sulla centralità della libertà politica nei Discorsi e sostiene che «Machiavelli’s preoccupation with political liberty provides him with his basic theme in all three books of the Discourses». Machiavelli condivide con gli altri umanisti anche la tesi che un tipo misto di governo repubblicano, «a mixed type of Republican rule» (Foundations, vol.I, p.150), rappresenta la forma migliore di governo, la forma che garantisce al meglio la libertà politica. Pregia, però, un “governo largo”, un governo in cui si dia adeguata voce al “popolo”. E prende le distanze dall’ammirazione del “governo stretto” di tipo veneziano, diffusa in quegli anni tra molti fiorentini di simpatie aristocratiche, da Bernardo Rucellai a Francesco Guicciardini. Già queste osservazioni sulle scelte di fondo di Machiavelli consentono a Skinner una precisa presa di posizione storiografica. E cioè il rifiuto della tesi che Machiavelli sia semplicemente un politologo, uno scienziato della politica, intento a considerare e a classificare con animo distaccato le varie forme di governo. […]
Il Machiavelli dei Discorsi, così, è presentato essenzialmente come un “filosofo della libertà”. La libertà, infatti, viene considerata da Skinner il “basic value” dei Discorsi, mentre la sicurezza viene ritenuta il valore ispiratore del Principe. Skinner intende dunque trovare un punto di equilibrio tra due esigenze: quella di dar conto e di mettere in rilievo le divergenze tra le due opere maggiori del Segretario fiorentino e quella di segnalare le concettualizzazioni, le elaborazioni teoriche comuni ad entrambe. Per evitare di far propria la “mitologia della coerenza” vuole insistere, anche sulla scorta di Baron, sulle divergenze. Per essere fedele ai testi, non può far a meno di rintracciare anche le elaborazioni comuni. Skinner suggerisce che per rendere conto delle differenze bisogna guardare ai valori di fondo ispiratori delle due opere, più che alla forma di governo apparentemente pregiata o raccomandata nell’una o nell’altra, il principato o la repubblica. Ricorda, poi, in più passi, che il discorso di Machiavelli sui meriti rispettivi del principato e della repubblica non è mai un discorso astratto, ma un discorso che tiene conto delle condizioni storico-politiche in cui quelle forme di governo devono essere attuate, del peso della storia e dei suoi rivolgimenti sulla politica. Il principato è la forma di governo che si raccomanda in un contesto storico-politico preciso: tanto nel Principe quanto nei Discorsi Machiavelli suggerisce infatti che in condizioni di avanzata corruzione politica sarà sempre necessario fare affidamento sul governo di un solo uomo per fare uscire la città, o lo stato, dalla condizione di decadenza e per ripristinare una qualche forma di vita civile. Con i pensatori di formazione umanistica, come si è già visto, Machiavelli condivide la preoccupazione per la libertà politica, l’assunzione della libertà politica come valore di fondo ed, in generale, la preferenza quindi per i governi repubblicani. Skinner si sofferma su altri terreni di convergenza: la messa in luce dell’importanza delle armi proprie e la denuncia delle armi mercenarie, la preoccupazione per la corruzione e l’analisi delle diverse vie per le quali prende piede in una repubblica […].
Skinner, dunque, su questo come su altri temi, mostra con finezza continuità e discontinuità di Machiavelli rispetto alle convinzioni delle generazioni precedenti di umanisti. A suo giudizio, però, su due questioni di fondo Machiavelli prende decisamente le distanze dalle tesi umanistiche, dalle convinzioni degli umanisti di tutte le generazioni. Sulla valutazione dei tumulti, delle disunioni, che caratterizzarono la vicenda della repubblica romana e sulla valutazione della compatibilità della virtù politica con le virtù della tradizione cristiana. Secondo Skinner, la valutazione positiva delle disunioni che fecero “libera e potente quella repubblica” proposta da Machiavelli nel quarto capitolo del primo libro dei Discorsi rappresenta non soltanto una rottura rispetto al paradigma veneziano, come aveva sostenuto John Pocock, all’apprezzamento del governo stretto veneziano, e della tranquillità e stabilità da esso garantite, così diffuso tra molti umanisti, ma una radicale rottura rispetto a tutto il “pensiero politico fiorentino” e più in generale rispetto al pensiero umanistico, che sulle orme di Cicerone e di Sallustio, aveva attribuito un valore decisivo alla concordia. Chiedendosi implicitamente “Che cosa stava facendo Machiavelli quando nei Discorsi sosteneva quelle tesi?”, Skinner risponde che stava mettendo in discussione una delle premesse più radicate del pensiero politico dei tre secoli precedenti, quella secondo cui tutte le discordie civili dovevano essere messe al bando perché aprivano le porte alle fazioni più nefande. Machiavelli non solo stava sottoponendo a critica il modello veneziano che aveva trovato più di un estimatore nella stessa Firenze, ma più in generale stava revocando in dubbio quell’ideologia della concordia ordinum, di matrice ciceroniana, che aveva svolto un ruolo di grande importanza nelle elaborazioni pre-umanistiche e trovato una rappresentazione figurativa di gran livello negli affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. […]
L’altro grande punto di rottura di Machiavelli rispetto alla tradizione del repubblicanesimo classico è rintracciabile nella sua presentazione dei caratteri della virtù. La virtù tematizzata nelle pagine dei Discorsi non è più la virtù del singolo, del principe, ma è la virtù del corpo cittadino nel suo complesso: in quell’opera emerge sicuramente «a more collective view of virtù» (Foundations, vol.I, p.176). Machiavelli presenta la virtù come la qualità necessaria per far sopravvivere libera la repubblica e per farla pervenire alla grandezza; insiste dunque sul nesso costitutivo esistente tra virtù e libertà politica. Ma insiste anche nel presentare la virtù del popolo in termini molto lontani da quelli usati per delineare le virtù cristiane e le virtù cardinali care agli umanisti. Se “la virtù è la chiave del successo politico”, è la virtù stessa a richiedere ai cittadini di porre la libertà e la sicurezza della repubblica al di sopra di ogni considerazione: la gerarchia cristiana dei valori e la gerarchia umanistica delle virtù vengono radicalmente sovvertite. Così Skinner può concludere che «for all the many differences between The Prince and the Discourses, the underlying political morality of the two books is thus the same» (Foundations, vol.I, p.183). Ed in questa “political morality” le esigenze tradizionali della giustizia, veicolate tanto dalle etiche classiche di matrice stoica, quanto dall’etica cristiana, passano in secondo piano. In primo piano rimane il valore del “mantenere lo stato”, per usare l’espressione del Principe, o quello di garantire “la salute della patria”, per ricorrere all’epressione dei Discorsi. […]
3.
Se queste sono le linee generali dell’interpretazione proposta in The Foundations e nel volume su Machiavelli, ci si può soffermare ora sui limiti di questa interpretazione e prendere in esame le critiche che sono state portate, o che si possono portare, a questo tipo di lettura. Mi sembra che si possano identificare tre livelli diversi di critica o tre tipi differenti di critiche. Un primo tipo di critica si appunta sulle scelte metodiche di Skinner: innanzitutto, sul suo analizzare le opere di Machiavelli in modo separato, poi, sul suo modo di concepire il linguaggio e la strutturazione concettuale dei testi politici. Un secondo tipo di critica investe, da un lato, il modo in cui Skinner tematizza il rapporto tra testo e contesto, e qui viene in gioco la questione della continuità o discontinuità di Machiavelli rispetto alla tradizione del repubblicanesimo classico, e dall’altro, la selezione o la individuazione dei contesti, attuata da Skinner per dar conto del pensiero di Machiavelli. E a questo proposito ci si può chiedere, ed è stato chiesto, se sia sufficiente far riferimento alle opere di filosofi e storici romani, o se sia necessario guardare anche ad altri contesti, ed in primo luogo a quello della cultura greca e delle complesse mediazioni con cui venne trasmessa agli intellettuali moderni. Un terzo tipo di critica ha un carattere più puntuale: verte sul modo di intendere alcune specifiche teorie politiche machiavelliane, come quella dei due umori presenti in ogni corpo politico, l’apprezzamento dei tumulti che segnarono la storia romana e “fecero libera e potente quella repubblica”, la nozione di guardia della libertà e l’affermazione che essa vada collocata nel popolo. Si è detto che quello adottato da Skinner è un genere di presentazione che analizza in modo separato le opere del Segretario fiorentino; è un genere di presentazione che di queste opere trasceglie alcuni temi o alcune concettualizzazioni, per riportarle a uno o più contesti di intelligibilità e valutarne l’originalità. Ora, si potrebbe sostenere che il rischio che in tal modo Skinner corre è quello di non ricostruire adeguatamente la struttura concettuale unitaria della riflessione machiavelliana. Il rischio è che gli sfuggano, o non vengano pienamente trattati, temi comuni non solo al Principe o ai Discorsi, ma a tutte le opere machiavelliane, temi relativi, per così dire, alle assunzioni filosofiche di fondo del Segretario fiorentino. Per dirla in altro modo, si potrebbe argomentare che Skinner tende a concepire il linguaggio in una dimensione orizzontale; tende ad analizzarlo spesso in forma segmentata. Rischia così di perdere di vista la dimensione verticale, gerarchicamente strutturata, del linguaggio e delle concettualizzazioni. Rischia di non cogliere a pieno alcune strutture concettuali profonde, quelle strutture che spesso non sono portate a piena consapevolezza e sovente sono espresse attraverso una rete di metafore. […]
Un seconda famiglia di obiezioni mosse a Skinner è relativa, da un lato, al suo modo di rapportare i testi machiavelliani ai loro contesti di intelligibilità, e, dall’altro, alla scelta stessa dei contesti necessari per comprendere la teoria politica machiavelliana. Come abbiamo visto, da un lato, la lunga durata delle teorie repubblicane di matrice umanistica, a partire dai trattati di matrice retorica del tredicesimo secolo, dall’altro, la riflessione filosofica romana classica, di un Cicerone e di un Seneca, e la storiografia romana classica, di un Sallustio e di un Tito Livio. Più di uno studioso ha obiettato a Skinner che, anche assumendo questi come i contesti significativi per comprendere Machiavelli, si può prospettare la riflessione del Segretario fiorentino sotto altra luce. Sotto accusa è stato l’approccio continuistico di Skinner, ribadito anche nei suoi ultimi saggi di tipo storico: il suo prospettare Machiavelli come, in ultima analisi, un rappresentante del repubblicanesimo classico. Secondo questi interpreti il rischio è quello di non dare sufficientemente conto della originalità di Machiavelli. Guardando in modo sistematico alle sue rotture rispetto alla tradizione, si dovrebbe quindi presentare Machiavelli come il teorico di un repubblicanesimo di nuovo tipo, di un repubblicanesimo di tipo segnatamente moderno. Altri studiosi si son chiesti se non sia necessario affiancare, al contesto romano e a quello umanistico e pre-umanistico, altri contesti, per comprendere, ad esempio, le linee di fondo dell’antropologia machiavelliana, o il suo modo di tematizzare tempo e occasione, o infine le sue prese di posizione nei confronti della “setta” cristiana, nei confronti del Cristianesimo. La cultura greca, e le complesse mediazioni con cui è stata trasmessa ai moderni, è ritornata in primo piano negli studi. Due sono state, in particolare, le piste battute in anni recenti. Da un lato, si è ricordato che Machiavelli in gioventù copiò tutto il De rerum naturae di Lucrezio, venne cioè in contatto, seppure mediato, con la filosofia di Epicuro e con il suo materialismo. Ci si è pertanto posti a studiare quali tracce questa giovanile dimestichezza con il materialismo epicureo abbia lasciato sulla riflessione antropologica machiavelliana o sulla sua tematizzazione dell’occasione. Dall’altro lato, si è ritornati a tematizzare e ad indagare il rapporto di Machiavelli con Aristotele, interrogandosi sui diversi tramiti attraverso cui il testo greco poteva essere pervenuto in versione latina alla lettura del giovane Machiavelli. Si è posta attenzione alle mediazioni averroistiche e a quelle di matrice tomistica. Il libro di Ricordi del padre di Machiavelli, Bernardo, in cui questi annotava i libri che possedeva o che aveva avuto in prestito, è stato variamente interrogato. Tenendo sullo sfondo anche la cultura greca, o almeno alcune sezioni della cultura greca, la “filosofia nascosta” di Machiavelli, le assunzioni filosofiche di base di Machiavelli, possono forse essere messe meglio in risalto, in luce. Un terzo tipo di obiezione o di critica che è stata mossa, con varie sfumature, alla ricostruzione avanzata da Skinner è di carattere politico: procede dalla messa in discussione della sua particolare lettura di specifiche teorie machiavelliane per giungere, in alcuni casi, ad investire l’interpretazione complessiva del pensiero politico del Segretario fiorentino. Ad essere messa in discussione, in particolare, è l’interpretazione skinneriana della dottrina degli umori e dell’apprezzamento dei tumulti che da quegli umori si generano. È stato osservato che l’interpretazione di Skinner è eccessivamente irenica; è stato suggerito che egli mette sostanzialmente sullo stesso piano i due umori, mentre Machiavelli pregia ovviamente l’umore popolare, il desiderio del popolo di non essere oppresso; è stato ricordato che Skinner non connette come sarebbe necessario la teoria degli umori, e dei tumulti che da essi nascono, con la tematica della costruzione dell’impero, non delineando compiutamente i nessi tra politica interna e politica estera o, meglio, tra politica e guerra. Alcuni studiosi hanno argomentato che, in tal modo, oscurando la scelta di campo filo-popolare di Machiavelli, non si riesce a comprendere quanto il suo repubblicanesimo sia di tipo nuovo, di carattere radicalmente anti-elitistico, e profondamente critico delle dimensioni elitistiche presenti nel repubblicanesimo classico ed in molte elaborazioni repubblicane del suo presente, a partire da quella di Guicciardini. Ho ricordato in apertura che la radicale lettura di Leo Strauss, e degli interpreti che a lui si rifanno, ha sempre costituito per Skinner un obbiettivo polemico, o forse, l’obiettivo polemico principale. Skinnner si è opposto ad essa presentando un Machiavelli pensatore repubblicano e filosofo della libertà, si è contrapposto ad essa rielaborando, ad esempio, alcune tesi di Berlin sulla sua originalità. Secondo questi critici, in questa opera di “riabilitazione” del pensatore fiorentino, in quest’opera di “urbanizzazione” della provincia machiavelliana, si è spinto troppo in là, al punto da passare sotto silenzio o da rendere quasi irriconoscibili alcuni aspetti di grande spessore teorico dell’impresa machiavelliana.
4.
Ma è ora di abbandonare lo Skinner storico, e le critiche che sono state portate alla sua interpretazione, per prendere in esame, seppur molto brevemente, lo Skinner teorico-politico. È ora di considerare il modo in cui Skinner ricorre a Machiavelli nel contesto del suo progetto di recupero del repubblicanesimo. O, meglio, nel contesto delle sue ricerche sul concetto di libertà. Machiavelli ed i pensatori repubblicani mettono a punto, a suo giudizio, una concezione della libertà di grande interesse e coerenza che merita di essere riproposta nei dibattiti contemporanei. Skinner è convinto che Machiavelli e i pensatori repubblicani elaborino una particolare concezione della libertà negativa. Il suo sforzo nei passati due decenni è stato volto a chiarire questa concezione della libertà in tutti i suoi aspetti, considerando una serie di nodi concettuali ad essa collegati: la nozione di coercizione da essa implicata, innanzitutto, il nesso tra libertà ed eguaglianza da essa presupposto. Queste tesi vennero presentate per la prima volta in un saggio apparso nel 1983 dal titolo Machiavelli on the Maintenance of Liberty, in cui Skinner analizzava il modo in cui il Segretario fiorentino tematizzava il problema della libertà individuale e collettiva. E vennero poi argomentate in un contesto storicoconcettuale molto più vasto nei saggi successivi The Idea of Negative Liberty: Philosophical and Historical Perspectives, pubblicato nel 1984, e The Paradoxes of Political Liberty, del 1986. Con questi saggi di ampio respiro Quentin Skinner interveniva consapevolmente in più dibattiti. Si inseriva, in primo luogo, nella discussione sul concetto di libertà condotta dalla filosofia analitica di lingua inglese da più due decenni, discussione inaugurata ufficialmente dalla lezione di Isaiah Berlin su i Due concetti di libertà, ma di cui forse possono essere rintracciate tappe precedenti. Skinner dimostrava di conoscere con precisione tutte le fasi e le sottigliezze di quel dibattito sull’esistenza, o meno, di due modi fondamentali di concettualizzare la libertà, e più in generale, di due famiglie di teorie della libertà. Padroneggiando le tesi di Berlin, così come le critiche portate da MacCallum alla dicotomia di Berlin, nonché la discussione sulla stessa interpretazione triadica di MacCallum condotta da Baldwin e da altri, non aveva difficoltà ad intervenire in esso e a mettere in evidenza le unilateralità e le ingenuità dei filosofi di formazione analitica, soprattutto nella lettura dei classici del pensiero politico. Con quei saggi, però, Skinner interveniva anche in un altro dibattito teorico-politico di quegli anni: interveniva nella discussione, allora alle prime fasi, tra pensatori liberali e filosofi comunitari. Skinner cercava di sfuggire alle secche della contrapposizione, di non prendere posizione per l’uno o l’altro schieramento, ma, si potrebbe dire, di sovvertire in parte i termini stessi del dibattito. La contrapposizioni tra teorici liberali della libertà negativa e teorici neoaristotelici della libertà positiva era, a suo giudizio, una falsa contrapposizione. Se era da prendere sul serio la denuncia avanzata dai pensatori neoaristotelici dell’impoverimento del linguaggio politico causato dalle teorie liberali, con l’insistenza sui diritti individuali e la libertà negativa, non si poteva però accettare la loro risposta alla crisi del presente, carica di ipoteche metafisiche. Esistevano ed esistono, infatti, più famiglie di teorie della libertà negativa. Non esiste soltanto la famiglia liberale, con la sua nobile genealogia che va da Bentham a Constant, da Mill a Berlin. Anche i pensatori repubblicani, da Machiavelli a Harrington, da Milton a Sidney, si servono, infatti, di una concezione negativa della libertà. Skinner proponeva così un’interpretazione del repubblicanesimo del tutto alternativa a quella avanzata da Pocock. È noto che il Machiavellian Moment poggiava, tra le altre, su due tesi di grande rilievo: l’idea della continuità tra aristotelismo e repubblicanesimo, la presentazione della tradizione repubblicana come tradizione precedente e soprattutto alternativa alla tradizione liberale. E si può ricordare che furono i critici della teoria della giustizia di Rawls, i pensatori ben presto definiti “comunitari”, ed in particolare Michel Sandel e Charles Taylor, a riprendere le tesi di Pocock nella discussione filosofica-politica. E questo non deve affatto stupire. Il repubblicanesimo à la Pocock offriva loro una concezione dell’individuo e della società politica largamente spendibile nella polemica contro le tesi rawlsiane e più in generale contro le teorie liberali. Il continuum teorico tra aristotelismo, repubblicanesimo e comunitarismo era così stabilito, sul finire degli anni settanta. Ma proprio contro questa continuità teorica si muoveva Quentin Skinner. Sul piano storiografico, insistendo, come si è visto, sul fatto che il linguaggio della tradizione repubblicana moderna è debitore nei confronti delle elaborazioni filosofiche e storiche romane, Skinner tenta di spezzare o, per lo meno, di ridurre di gran lunga l’importanza di quella continuità tra l’aristotelismo ed il repubblicanesimo che era stata enfatizzata da Pocock. Sul piano strettamente interpretativo, battendosi contro le tesi di MacIntyre e di altri comunitari secondo cui, oggi, la scelta filosofica da compiere è tra l’individualismo liberale ed una versione o l’altra della tradizione aristotelica, Skinner cerca di dare un profilo autonomo al repubblicanesimo, sottraendolo all’abbraccio di aristotelici vecchi e nuovi. A suo giudizio, il repubblicanesimo non è una forma di politica aristotelica. Per dimostrare questo, nei saggi sui vari modi di concettualizzare la libertà78, mette in luce come nel pensiero di Machiavelli, e dei repubblicani che a lui si rifanno, non ricorrano alcuni assunti tipicamente aristotelici: l’uomo, innanzitutto, non è presentato come un animal politicum et sociale, per usare l’espressione tomistica, ma come un essere esposto alla “corruzione”, un essere che tende a trascurare i suoi doveri verso la collettività; nella res publica, inoltre, gli individui perseguono fini diversi gli uni dagli altri, non si può presupporre l’esistenza di fini necessariamente condivisi da tutti. La libertà teorizzata dai repubblicani, lo si è già detto, non è già la libertà positiva, ma una particolare forma di libertà negativa: l’individuo partecipa alle vicende della sua res publica non già perché quella sia la sua destinazione naturale, ma per impedire che in mano ad altri il governo degeneri in una tirannide odiosa, in grado di mettere in discussione la sua sicurezza e la sua proprietà privata. La partecipazione politica non si configura come un fine ultimo, ma come un mezzo o un fine mediano. Skinner conferisce così autonomia teorica al repubblicanesimo liberandolo dalle ipoteche metafisiche presenti nella politica aristotelica teleologicamente orientata; lo configura come una teoria politica ancora riproponibile nel nostro presente, una terza via possibile tra l’individualismo liberale ed il comunitarismo di matrice aristotelica. Una riformulazione della teoria repubblicana della libertà può aprire le porte, a suo giudizio, ad una teoria della cittadinanza degna d’interesse. Skinner fa discendere, così, da una teoria repubblicana ripensata per l’oggi un invito ad una pratica più attiva e partecipativa della cittadinanza. È ben consapevole del fatto che «non abbiamo nesuna prospettiva realistica di assumere il controllo diretto dei processi politici nelle democrazie moderne», ma è convinto che esistano «molte aree della vita pubblica (…) nelle quali un aumento della partecipazione pubblica potrebbe servire a migliorare l’affidabilità dei nostri soi disant rappresentanti» (The Republican Ideal of Political Liberty, pp.308-309, tr. dell’autore). Non posso soffermarmi, in questa sede, su altri aspetti della riproposizione della concezione repubblicana della libertà operata, in quei saggi, da Quentin Skinner. Vorrei soltanto ricordare che essa è stata subito accolta con attenzione e rispetto da più di un filosofo politico. Lo stesso John Rawls ha fatto riferimento ad essa nelle pagine di Political Liberalism, allorché si è interrogato sui possibili punti di intersezione tra liberalismo e repubblicanesimo. È stato poi Philip Pettit, in particolare, a riprendere e sistematizzare molte tesi di Skinner nel suo ampio volume del 1997, Republicanism. A Theory of Freedom and Government, volume che ha spinto lo stesso Skinner a riformulare e ad approfondire alcune sue tesi. E questo è avvenuto innanzitutto nelle pagine di Liberty before Liberalism, volume nel quale si possono registrare degli interessanti mutamenti terminologici e dei significativi approfondimenti analitici e concettuali. Se nei saggi degli anni ottanta per ricostruire il profilo concettuale della tradizione repubblicana, Skinner aveva messo al centro della sua attenzione soprattutto il pensiero di Machiavelli, nelle pagine di La libertà prima del liberalismo il fuoco storiografico si sposta. Sono le teorie inglesi degli anni centrali del Seicento ad essere prese in esame alla ricerca delle concettualizzazioni della libertà. Skinner non solo analizza attentamente le riflessioni di pensatori maggiori, e già ben noti, come John Milton, James Harrington, Algernon Sidney, ma considera anche le elaborazioni di autori di secondo piano, quali Marchamont Nedham, John Hall, Francis Osborne. Tiene conto del fatto che tra questi pensatori vi era una notevole disparità di idee sugli assetti istituzionali della repubblica desiderata. Se alcuni avevano in mente una sorta di governo misto, in cui un qualche ruolo era riservato ancora alla figura del monarca, altri erano convinti che soltanto uno stato retto da un Parlamento e da un esecutivo liberamente eletti, uno stato dunque che non prevedesse tra le sue istituzioni il monarca, potesse dirsi una vera repubblica. Per questo, avendo di mira il modo in cui questi pensatori tematizzano la libertà, e non le singole soluzioni istituzionali, preferisce riferirsi alle loro elaborazioni, nel loro complesso, con un termine nuovo. Preferisce parlare di “teoria neoromana della libertà” e, assumendo una definizione stretta di repubblicanesimo, definire repubblicani solo quegli autori radicalmente antimonarchici, che negano qualsiasi ruolo o funzione al re. Secondo Skinner, la concezione della libertà propugnata dai pensatori neoromani è una concezione negativa. La libertà viene definita per via negativa: è caratterizzata innanzitutto dall’assenza di costrizione. Il problema è come veniva interpretata l’idea di costrizione. Per i pensatori neoromani la costrizione era causata non solo dall’interferenza ma anche dalla dipendenza, nelle sue diverse forme. L’antonimo della libertà è, dunque, un antonimo complesso: interferenza e/o dipendenza. Sollecitato dalle riflessioni di Philip Pettit, Skinner si interroga ancora una volta su che cosa distingua la concezione neoromana della libertà dalla concezione proposta in origine da Hobbes e poi sostenuta dai pensatori liberali. Se nei saggi degli anni ottanta Skinner sosteneva che la divergenza tra repubblicani e liberali non verteva sul significato della libertà, ma essenzialmente sui mezzi necessari a conservare e garantire la libertà stessa, nelle pagine di Liberty before Liberalism argomenta che il disaccordo verte non solo sui mezzi per garantire la libertà, ma sul significato stesso della libertà. I pensatori neoromani sostengono «a view according to which our freedom should be seen not merely as a predicate of our actions but as an existential condition in contrast with that of servitude» (Liberty before liberalism, p.70, n.27). Per chiarire le nozioni di libertà, costrizione, dipendenza, Skinner propone di guardare ancora una volta alle fonti dei pensatori seicenteschi. Ricorda quanto essi debbano a Machiavelli e ritorna così, in molte pagine, ad analizzare passi chiave dei Discorsi, sulla nozione stessa di libertà o sul nesso tra libertà e grandezza. Skinner è convinto però che nel loro caso, così come già in quello del Segretario fiorentino, le fonti determinanti siano le fonti romane. La denominazione da lui scelta non è affatto casuale. Skinner sostiene che questi pensatori seicenteschi quando tematizzano la libertà, e soprattutto quando presentano l’assenza di libertà come schiavitù, seguono da vicino la lezione fornita dagli storici e dai moralisti romani, da Sallustio a Tacito, da Cicerone a Seneca. E suggerisce che alle spalle delle concettualizzazioni di storici e moralisti stava la tradizione giuridica romana. Propone pertanto di guardare al luogo di condensazione e di precipitazione delle tesi di questa tradizione, al Digesto giustinianeo, per intendere le definizioni della libertà e dei suoi antonimi. Se in precedenza Skinner si era limitato a mettere in evidenza, contro le prospettive interpretative che insistono sulla continuità tra pensiero aristotelico e tradizione repubblicana, il ruolo della storiografia e della riflessione morale e politica romana, in questo lavoro porta alla luce persuasivamente l’importanza delle concettualizzazioni del diritto romano proprio per la formulazione del concetto più importante del lessico politico dell’occidente moderno, quello di libertà. Si potrebbe parlare di una opportuna precisazione della sua tesi più generale. Lo scavo di storia concettuale delle teorie della libertà condotto negli anni ottanta e novanta, la contrapposizione tra le teorie repubblicane o neoromane e le teorie di matrice hobbesiana, l’analisi dei diversi modi di concettualizzare la costrizione e di intendere il significato stesso della libertà, ha portato sempre più Skinner ha mettere l’accento sull’esistenza di teorie politiche rivali, di teorie alternative. Forse bisognerebbe menzionare a questo punto anche l’altro scavo di storia concettuale condotto da Skinner negli ultimi anni, relativo all’emergere e strutturarsi dell’idea dello stato come persona artificiale. Gli esiti di questa ricerca, avviata già in nuce nelle pagine di The Foundations, lo hanno portato a concludere che questa idea, l’idea dello stato come persona artificiale titolare in ultima istanza della sovranità, è elaborata a pieno soltanto da Hobbes ed è del tutto estranea ai pensatori che si rifanno alla tradizione repubblicana o neoromana, precedenti a Hobbes o anche a lui successivi, come i cosiddetti Commonwealthmen. Anche a questo riguardo, dunque, si danno concettualizzazioni alternative, ideologie rivali. Non è dunque casuale che Skinner batta proprio su questo tasto nella prefazione a Visions of Politics, alla raccolta dei suoi studi sul metodo, sulle virtù rinascimentali, e su “Hobbes and civil science”. E non è un caso che, modificando felicemente il titolo di una celebre opera di Sheldon Wolin, l’abbia intitolata Visions of Politics e non “Visions of the State”. Soltanto una delle tradizioni studiate, quella che trova la sua formulazione paradigmatica in Hobbes, tematizza come centrale il concetto di stato. Skinner riconosce sì che un modo di parlare di politica, quello incentrato sullo stato, è diventato dominante o egemone, a partire dalla fine del Seicento, ma mette in evidenza come questo modo di pensare la politica è stato sfidato con costanza, in precedenza e anche successivamente, da modi alternativi di pensare la politica e la convivenza umana. Da The Foundations, a Liberty before Liberalism, da Visions of Politics a Hobbes and Republican Liberty, Skinner può dunque essere considerato lo storico delle teorie politiche rivali, delle tradizioni e dei linguaggi politici alternativi che si confrontavano nella storia. Ed uno storico che ha più volte insistito sulla necessità di recupare i “tesori nascosti” del nostro passato, le concettualizzazioni ed i linguaggi politici sconfitti, i modi di interpretare valori comuni passati in desuetudine, sepolti dagli “hegemonical accounts” del “mainstream of our intellectual traditions”. Penso a quanto da lui sostenuto nelle pagine conclusive di Liberty before Liberalism. Ma penso anche alle righe finali della “Preface” a Visions of Politics nelle quali Skinner, riferendosi alle teorie repubblicane rinascimentali analizzate nel secondo volume ed alla filosofia politica di Hobbes presa in esame nel terzo, sostiene di aver studiato e comparato «two contrasting views we have inherited in the modern West about the nature of our common life». Ed aggiunge in modo lapidario: «One speaks of sovereignty as a property of the people, the other sees it as the possession of the state. One gives centrality to the figure of the virtuous citizen, the other to the sovereign as a representative of the state. One assigns priority to the duties of citizens, the other to their rights» (Visions of politics, vol.II, p.xi). Si tratta sì di contrapposizioni storiche, ma anche di alternative teoriche per l’oggi. Che il cielo delle teorie politiche sia un cielo solcato da radicali alternative e da profonde contrapposizioni non può stupire. Per Skinner, il terreno stesso della politica è un terreno di conflitti. Ed anche le teorie politiche partecipano a questi conflitti. Le teorie politiche, le ideologie politiche, prendono parte attivamente ai conflitti legittimando e delegittimando continuamente i soggetti politici sulla scena. “Words are deeds” aveva insegnato Wittgenstein. Si potrebbe sostenere che Skinner ha continuamente cercato di tradurre in pratica questa lezione wittgensteiniana occupandosi di teorie politiche, del Segretario fiorentino e dell’autore del Leviathan, in primo luogo.
5.
Una volta Eric Weil ebbe ad osservare che si possono distinguere due tipi di presenze di Machiavelli nella nostra cultura, che a volte si succedono le une alle altre, e a volte si sovrappongono: una fase, un momento, in cui gli interpreti discutono con acribia filologica della genesi della sua opera e del suo significato, ed altre fasi, altri momenti, in cui Machiavelli ritorna direttamente sulla scena politica, in cui si guarda alla sua opera per cercare una risposta possibile ai problemi del presente. Machiavelli, in quest’ultimo caso, diventa quasi un contemporaneo di chi lo interroga alla ricerca della natura della politica o di una definizione esigente di libertà. Un momento in cui Machiavelli sta nella sua distanza, dunque, e un momento in cui Machiavelli è nostro contemporaneo. Un momento in cui prevalgono le ragioni della discontinuità, in cui vengono in primo piano gli aspetti storicamente determinati del suo pensiero, e un momento in cui prevalgono le ragioni della continuità, in cui l’attenzione cade sugli aspetti teoricamente ancora attuali e inquietanti del suo pensiero. Non è facile dire quale fase stia attraversando la nostra cultura. Forse negli ultimi quattro decenni i due tipi di lettura, i due tipi di approccio, sono stati compresenti e a volte le rispettive argomentazioni si sono sovrapposte e intersecate. Questo, per lo meno, è sicuramente vero nel caso di Quentin Skinner. In una prima fase della sua ricerca, come si è visto, Skinner ha cercato di ricostruire la riflessione di Machiavelli nei contesti che riteneva più significativi, la riflessione storica e filosofica romana e la riflessione pre-umanistica e umanistica. In una seconda fase della sua ricerca è ritornato ad interrogare le pagine del Principe e soprattutto dei Discorsi con intento più teorico, alla ricerca del modo machiavelliano di concettualizzare la libertà, la legge, il rapporto tra legge e libertà. Ha ritenuto che fosse possibile identificare “un terzo concetto di libertà”, che a suo giudizio caratterizza e accomuna tutti gli scrittori che ha via via denominato neo-romani o semplicemente repubblicani. La sua riflessione è stata feconda ed intersecandosi produttivamente con quella di John Pocock e, in particolare, di Philip Pettit, ha contribuito ad alimentare non solo una straordinaria crescita di studi storici sulla tradizione repubblicana moderna, ma anche e soprattutto ha favorito la formazione di una complessiva filosofia politica di tipo repubblicano. Negli ultimi due decenni, in ambiti culturali anche molto diversi, abbiamo assistito, infatti, non solo ad una rivalutazione storica della tradizione repubblicana moderna, ma ad una vera e propria elaborazione di teorie repubblicane della libertà e della partecipazione politica per il nostro presente. Negli anni ottanta e novanta, numerosi filosofi del diritto e filosofi della politica, da Frank Michelman. allo stesso Philip Pettit, hanno tentato di ripensare il repubblicanesimo come una teoria della libertà e del governo per le società democratiche contemporanee. È emerso così un programma di ricerca di carattere normativo, preoccupato anche dei risvolti istituzionali delle sue proposte, un programma di ricerca sempre più spesso definito come neo-repubblicanesimo. In questo più ampio ambito di discussione, le elaborazioni di Skinner a proposito del terzo concetto di libertà, e dell’idea di costrizione ad esso soggiacente, sono state sottoposte a critica da parte di vari filosofi liberali, come ad esempio Ian Carter e Matthew Kramer. E Skinner è stato costretto a riformulare le proprie tesi e a precisare la nozione di libertà, di “Freedom as the Absence of Arbitrary Power”, per citare il titolo di un suo recente saggio. Ma quel che mi preme sottolineare, in questa sede, è che nel contesto del dibattito filosofico-politico contemporaneo la posizione di Skinner si caratterizza sì per una critica penetrante ad alcuni assunti delle filosofie politiche liberali, ma soprattutto per il fatto che la sua proposta si mantiene su un terreno rigorosamente individualistico, senza cedere alle premesse comunitarie, di impronta aristotelica o hegeliana. A suo giudizio, si possono coniugare punti di partenza individualistici e partecipazione politica, concezione negativa della libertà e quella che il vecchio Machiavelli chiamava virtù. Se si guarda ancora una volta, in via conclusiva e sintetica, al lavoro svolto da Skinner su Machiavelli tanto in ambito storico quanto in ambito teorico politico, si deve rilevare che emerge una forte continuità tra i due ambiti di ricerca. Machiavelli è ricondotto sì alla tradizione pre-umanistica e umanistica del repubblicanesimo classico, ma questo non vuol dire che sia considerato un autore premoderno. Perché quella tradizione, a giudizio di Skinner, contiene un “tesoro nascosto”, per usare le sue stesse espressioni. Quella tradizione è stata sì sconfitta con l’avvento della statualità moderna, e con le sue teorie di matrice hobbesiana. Ma contiene concetti di libertà e di cittadinanza di grande interesse che possono essere adeguatamente riformulati nel nostro dibattito contemporaneo. Ancora una volta Machiavelli, un certo Machiavelli, ritorna ad essere un nostro contemporaneo.