Mentre da ogni parte si invoca il ritorno della politica per fronteggiare le sfide globali, dalla crisi economica all’effetto serra, i cinquecento anni del Principe di Machiavelli sono un’eccellente occasione per riaccendere la secolare disputa sulla «vera» essenza del suo pensiero, quella disputa che – diceva Croce – non si esaurirà mai. In attesa di una mostra, il prossimo autunno al Vittoriano, di una nuova edizione critica dell’opera (a cura di Giorgio Inglese) e di una Enciclopedia machiavelliana Treccani nel 2015 (a cura di Gennaro Sasso), bisognerà comunque rassegnarsi all’idea che l’aggettivo «machiavellico» non diventerà mai un complimento. Ma certo Machiavelli non è solo il crudo messaggio del realismo politico.
C’è ben altro. La grandezza del Principe sta nella scoperta, ben vista da Gramsci nelle sue Noterelle dal carcere, e raccontata da Isaiah Berlin in uno stile più drammatico: i conflitti più difficili non sono quelli tra il vizio e la virtù, ma tra due tipi diversi di virtù, quella che eleva l’essere umano alle altezze della morale e della santità e quella che lo eleva alle altezze delle grandi costruzioni politiche, principati, imperi (o democrazie). Per Gramsci quella contenuta in nuce nelle dottrine del Machiavelli era una grande «rivoluzione intellettuale e morale»: l’autonomia della politica. Per Berlin è un terremoto che fa crollare lo schema monista della philosophia perennis; non esiste più una sola risposta vera a tutte le nostre domande, entriamo nell’era del pluralismo; e prendiamo atto di una separazione definitiva tra la salvezza nell’al di qua e quella nell’a di là, tra due tipi di vita che sono incompatibili.
Chi sta oggi sulle orme del Machiavelli? Per rispondere bisogna prima di tutto sapere che la politica, fatta e pensata, era la materia prima di Niccolò, era lei che alimentava le sue notti all’Albergaccio, era lei il contenuto delle sue conversazioni «nelle antique corti delli antiqui uomini», era «quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui», di cui alla celebre lettera al Vettori. Ed era la politica in atto della costruzione degli Stati, non pura téchne al servizio dei tiranni. Si sapeva muovere tra Roma, Parigi, Venezia e la Germania e il suo policy-making era insieme cura delle relazioni internazionali, degli armamenti, del consenso. Ma aveva sullo sfondo anche un disegno unificante, nel quale si intravede l’impossibile progetto dell’unità italiana. C’era in lui di che alimentare l’dea del politicus come il virtuoso di una virtù totale e autonoma, quella stessa per cui, tre secoli e mezzo dopo, Napoleone III avrebbe definito Cavour, il «sardo Machiavelli».
Per trovare i Machiavelli di oggi, dovremmo cominciare dalla differenza e varietà dei compiti in un’epoca in cui gli Stati sono fatti (con qualche eccezione lacerante), ma stanno perdendo la presa sulle rispettive società nazionali, mentre i sistemi democratici scompongono il mestiere del politico in due distinte professioni: quella di vincere le elezioni e quella di governare. Difficile unificarle: se gli italiani possono tenere cattedra sul tema da due decenni, Obama lo ha imparato a sue spese. Per condurre la campagna del 2008 (capolavoro assoluto di arte politica) si è servito di David Axelrod, che ha poi parcheggiato alla Casa Bianca come consulente, ma lo ha rimesso nel ruolo di strategist nel 2012 (secondo capolavoro). Nello stesso modo Bush aveva fatto con Karl Rove, il duro dei «lavori sporchi» che aveva intrecciato la campagna per la rielezione con la guerra in Iraq, gli spot elettorali con le portaerei e i top gun.
Una volta al governo, poi, al Principe democratico serve un complesso ventaglio di politiche alle quali lavorano istituzioni e think-tanks, non geni solitari. Il Segretario fiorentino se la dovrebbe vedere oggi con i sondaggi, ma era un vero Segretario di Stato (nel senso americano di ministro degli Esteri) e oggi starebbe sulla scena internazionale. Allora il problema del tempo era per lui l’alleanza coi Francesi per piegare Pisa, oggi sarebbe quello delle alleanze per chiudere la crisi siriana e pacificare il Medio Oriente. Pane per i denti di un Machiavelli è la discussione di questi giorni sulla crisi cubana dei missili nel 1962: è vero come sostiene Graham Allison (Foreign Affairs) che il successo di JF Kennedy (un errore poteva costare 100 milioni di morti in un conflitto nucleare) dipese dalla forza della sua minaccia nucleare contro Kruscev? O invece fu essenzialmente il risultato dell’accordo segreto sul ritiro dei missili americani dalla Turchia, come sostiene James Nathan? La discussione storica sulla crisi che segnò la fine della fase ascendente del comunismo contiene fattori – come piaceva scovarne al Machiavelli nelle sue conversazioni con il passato – che spiegano le ragioni delle vittorie e dei fallimenti, e gettano luce sulle decisioni da prendere nel presente. Il dibattito su Cuba si riflette infatti sull’Iran di oggi: per disinnescare il rischio nucleare funzionerà meglio la minaccia o il negoziato?
L’opera di Ser Niccolò voleva stabilire «come si acquistono» e «si mantengono» i principati (e «perché e’ si perdono»). Oggi lo vorremmo vedere all’opera, anziché su Cesare Borgia e Papa Giulio II, su come e perché il «principato» di Gheddafi sia durato quarantadue anni, quello di Ben Ali venticinque, e come e perché «e’ si son perduti». E ragionando su di loro, e su Assad a Damasco, si potrebbero ripescare quei passaggi del Principe che colpirono il machiavellico Lenin, quando scrisse in una direttiva, segreta, a Molotov, nel 1922: «Un intelligente scrittore di questioni statali» sostiene che «se per attuare un certo fine politico è necessario commettere una serie di crudeltà, bisogna commetterle nel modo più energico e nel più breve termine poiché una prolungata applicazione di crudeltà non è tollerata dalle masse popolari». Parlava naturalmente di Machiavelli senza nominarlo. Anche al «realista» Hegel (la storia «calpesta più di un piccolo fiore») piaceva molto questo libro. Ma c’è modo e modo di «calpestare fiori» e le prolungate crudeltà fanno saltare i dittatori, specie in tempi di digital media e smartphone.
Qualcuno cercherà gli eredi di Machiavelli tra i numerosi «consiglieri del principe» o spin-doctor che affiancano i leader politici: dai più famosi Mandelson, Campbell, Gould della leggendaria squadra di Tony Blair, fino agli eredi nostrani del mestiere che fu inventato in America da Edward Bernays, e cioè i Casaleggio, i Gori, e le più defilate agenzie che stanno dietro a singoli candidati. Ma quello è solo un segmento dell’arte che si è nel tempo diversificata. Il segmento maggiore dell’eredità professionale è da cercare nella lista dei veri colleghi di Machiavelli, i segretari di Stato americani da Thomas Jefferson (poi presidente) a George Marshall, da Henry Kissinger a Hillary Clinton.
Quanto può la forza che incute timore? e quanto l’influenza di un potere che si fa amare? Di questo si occuperebbe oggi il Machiavelli. Sospetto che avrebbe insistito più sulla forza: tra l’essere amati e l’essere temuti, dovendosi scegliere, suggeriva ai principi la seconda via, data la natura degli uomini. Ma avrebbe certo apprezzato che i più attenti continuatori della sua scuola di pensiero si trovino alla John Kennedy School of Government (Harvard), dove Joseph Nye è noto per l’uso che fa del Principe nelle sue lezioni e per sostenere l’idea del «soft power» (ascendente culturale) contrapposta allo «hard power» (coercizione) e per aver infine perorato, proprio commentando quelle pagine di 500 anni fa, la necessità di un equilibrato mix tra i due, ovvero lo «smart power», il potere intelligente che trae beneficio da entrambe le risorse: armi, alleanze, e una rete di istituzioni che accrescono influenza, legittimazione e stabilità del principato. Del resto la Firenze tra ‘400 e ‘500 si può ben paragonare alla maggiore potenza di oggi. Esercitarsi con una vera Segreteria di Stato europea è purtroppo fuori della nostra portata. Ci prova, con ardimento, talvolta Bernard-Henri Lévy, prima sulla Libia poi sul Mali, con molte ragioni, e sospingendo all’impresa armata prima Sarkozy poi Hollande, ma l’allievo di Sartre preferisce citare a sostegno delle «guerre giuste» Grozio e San Tommaso. Il Principe rimane troppo scopertamente realista sull’ordine che si stabilisce con la violenza delle armi, troppo «machiavellico».
“Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu se'”, di Giuseppe Brescia. Sta sempre bene in un florilegio della “religione della libertà”, la perorazione del signore al Duca d’Atene, in Firenze 1342, tanto la di lui nobile eloquenza richiama il tono delle “demegorie” di Pericle in Tucidide ( anche se il duca vi oppone i sofismi e la durezza del potere ). Ma, appunto: “Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu se’ ” ( XVIII del Principe ). Anticristiano o pagano per la critica della corruttela delle virtù civiche che la Chiesa e il culto hanno prodotto, nei ‘Discorsi’ e nel ‘Principe’, nelle ‘Istorie’ e nelle Lettere. Pure, un senso della trepidanza morale, in Machiavelli s’avverte. Il ‘giusto mezzo’ è conquistato a fatica, in etica e politica, tra liberalità e parsimonia (XVI); crudeltà r pietà; esser amato ed esser temuto; bestia e uomo; golpe e leone; candida colomba e serpente astuto. Ma è ricercato, il ‘giusto mezzo’, come una ‘dialettica mediazione delle passioni’. La ‘prudenza’ è la ‘virtù’ per Machiavelli (‘In che modo si debba sfuggire lo essere sprezzato e odiato’, XIX ). E che “la troppa confidenza non lo facci incauto e la troppa diffidenza non lo renda intollerabile” (XVII). E’ nella “dialettica delle passioni” la tanto invocata mediazione tra morale politica: come il ‘parto di ogni istante’ ( Croce 1897-1898 ), premessa allo svolgersi delle categorie ( concetto ‘pluripotente’ del ‘vitale’, se fosse lecito mutuare un termine dalla biologia delle cellule staminali ), e il ‘ponte’ della riflessione, dell’intimo travaglio, della scelta coscienziale che porta il principe ad attuare le proprie mire (Croce 1950). Guardiamo al Machiavelli maestro di ‘etica’ più che suggeritore di sistemi e strategie di potere politico; “agire comunicativo” più che “strategico” ( direbbe Habermas ). E la “questione dei modi categoriali”, periodicamente si riapre. La “terza” accezione di “freedom” presso i teorici repubblicani statunitensi; se si vuole, la “terza” via nei liberaldemocratici europei e italiani. Né è del tutto vero che il ‘monismo’ sia prerogativa assiologica degli antichi; il ‘pluralismo” dei valori e, segnatamente, di etica e politica, formi carattere esclusivo dei moderni, giusta la pregiata rilettura di Isaiah Berlin. Facendo attenzione a ben guardare al Machiavelli ‘dopo’ il ‘turning point’ del giacobinismo ( con il problema ‘libertà degli antichi-libertà dei moderno’, in Benjamin Constant; utopia degli antichi, temperata – distopia dei moderni, alienata, per ciò stesso; sogno degli antichi, da Omero a Lucrezio e sogno dei moderni, se si vuole, con Freud Jung e Fromm). E’ il problema da cui parte il Berlin, grande studioso di Vico ed Herder. Se si prende l’etica aristotelica come dottrina delle categorie, per esempio dal punto di vista dei principi regolativi nell’analisi “De Anima”, si rivalutano la “medietà del senso” ( tra materia e forma, potenza e atto ), la “proporzione” nella coscienza sensibile ( criterio scientifico-epistemico della ‘mediazione’), il “movimento” nei sensibili comuni ( prospettiva spazio-temporale). Vero è che Berlin parla in altro senso di “pluralismo” versus “monismo”: ed è senso che torna molto utile nel lessico corrente e diatribico a proposito di “relativismo” o “pluralismo”. Ne parla, cioè, in senso assiologico. Ma tale tesi, in fondo, combacia con la valutazione delle “due scienze mondane” ( l’economica e l’estetica ) affermata da Croce nella modernità, dove l’autonomia delle prime due forme di attività – rispetto a etica e logica – risale appunto a Machiavelli e Vico ( addirittura, al Machiavelli ‘entro’ Vico ). Pure, tutto ciò non toglie che si possa tentare di figger il viso a fondo nelle “pieghe dell’anima”, nelle modalità relazionali di etica e politica, ricontrollando la “acre amarezza”, l’ “anelito ai tempi buoni e puri”, il “sogno” dei tempi lontani e i costumi dei popoli europei meno colti; in definitiva l’immagine del “Centauro” e il paradigma della “prudenza” ( Croce 1924 ). La questione del rapporto di Croce a Machiavelli è, perciò, ben più complessa ( la sua restituzione filologica e filosofica è tentata, anno per anno e quasi giorno per giorno, da Fulvio Janovitz). Il “pochi sentono quel che tu se'”, non sarà dunque “cristiano” ‘tout court’ ( nel tanto discusso paradigma di Croce 1942, il cui riferimento polare stava pur sempre nella coscienza morale e nel suo travaglio ). Sarà come un “simulacrum” della coscienza, nella guisa del Libro IV del “De rerum natura” che mirabilmente Lucrezio pagano e pre-cristiano dedica all’anima e al mondo dei sogni. Ma è insomma un appello, una voce della coscienza interiore: di una “delle più alte e dolorose anime morali che la storia ci faccia conoscere” ( Croce 1949 ). C’è poi da considerare l’ampliarsi del concetto di “fortuna” come prospetto globale del campo storico, “accadimento” ( rimando al lavoro ermeneutico mio e del Sasso, sul punto: 1975-1981 ). Attualmente, quindi, nelle crisi globali, è chiaro che – se si vuol aver speranza di “mediazione” – bisogna guardare al campo globale dell’accadimento. La questione della Siria, allora, non risolubile senza risolvere o appianare lo spalleggiamento di armi e forniture da parte della Russia di Putin o dell’Iran. E quindi bisognerebbe far leva su questi ‘momenti’ anche – magari – economicamente ( vedasi il commento alla lucida recente analisi proposta della crisi finanziaria da George Soros ). Così come la crisi cubana del 1962 fu “risolta” sia con la deterrenza sia con lo smantellamento – disgiunto ma parallelo – delle basi in Turchia ( film “Thirteen Days” con Kevin Costner di Roger Donaldson del 2000 e altri autori ). Insomma: visione globale; cautela e ardimento; prudenza e audacia ( beninteso senza pretese di essere consiglieri del principe !) Ma neanche dimenticando che siamo il paese di Max Ascoli ( Ferrara 1898-New York 1978 ), salvato e aiutato dalla Rockfeller Foundation e direttore di “The Reporter”. che anticipò genialmente molti di questi temi, consapevole tuttavia di quanto costasse dire la verità, “andando contro corrente”. Giuseppe Brescia