Molti criticano il presidente Obama perché sta tergiversando su cosa fare in Siria. Io non sono uno di quelli. Tergiversare mi sembra l’unica risposta assolutamente logica a quel che sta accadendo laggiù. Il punto è che non sappiamo nemmeno bene cosa vogliamo che succeda. Voglio dire, non ci è chiaro quale tra i vari scenari possibili sarebbe il meno terribile. Ovviamente ai nostri lettori piacerebbe veder vincere i siriani che hanno studiato John Stuart Mill o che si ispirano alla socialdemocrazia svedese. Ma all’orizzonte non si configura neanche lontanamente qualcosa di simile.
I possibili esiti di questa situazione sono pochi e sconfortanti. Il primo può consistere nella vittoria del regime di Assad, che probabilmente si accompagnerebbe a una repressione più brutale e sanguinosa di quanto non sia stata finora la guerra civile e che finirebbe solo per rafforzare enormemente l’asse Iran-Hezbollah. Il secondo sta nel successo dei ribelli, sulla falsariga di ciò a cui abbiamo già assistito in Libia, con diverse milizie e signori della guerra (alcuni dei quali militanti jihadisti) che controllano le varie porzioni del Paese, l’intero arsenale dell’esercito sparso tra di loro e tra i vari rivoltosi e terroristi all’estero e con i gruppi sconfitti – in questo caso alawiti, drusi e cristiani – obiettivamente in pericolo. Un terzo possibile scenario è rappresentato dallo smembramento del Paese in uno Stato sunnita con capitale Damasco, uno Stato costiero alawita e una regione autonoma curda a nord. Chi dovrebbe comandare nel primo? A chi spetterebbe il compito di proteggere le minoranze nei primi due? E chi si prenderebbe la briga di gestire gli effetti destabilizzanti di tutti e tre messi insieme sulla politica di Libano, Turchia e Iraq? Al momento, nessuno è in grado di dare una risposta anche solo lontanamente plausibile a queste domande. In fin dei conti, tergiversare ha molto senso.
Secondo alcuni critici di Obama dovremmo scegliere una fra le milizie oppure un piccolo ma coerente gruppo di esse e far in modo che vinca la guerra. Mi pare uno degli esiti meno probabili, tenuto conto che non sappiamo poi granché dei diversi contingenti, che i nostri alleati – Turchia, Arabia Saudita e Qatar – verosimilmente hanno già optato per alcuni che non ci piacerebbe vincessero, che i confini tra i vari gruppi sono estremamente labili e che oltretutto il traffico di armi tra quegli stessi confini va al di là della nostra capacità di controllo. Inoltre val la pena di ricordare che qualche anno fa, nelle elezioni in Iraq, malgrado gli Stati Uniti stessero di fatto occupando il Paese il loro candidato Primo ministro arrivò terzo. Il governo americano non è capace di puntare sul vincitore neanche quando è sul posto, presente con circa centomila soldati. Come potrebbe quindi agire da dietro le quinte, con il solo ausilio di qualche spia della CIA che fa rapporto sul punto di vista politico o religioso di questo o quel signore della guerra (basandosi, immagino, su lunghe e circostanziate interviste)?
Ci sono alcune misure umanitarie che potrebbero essere adottate, su scala ben più ampia di quanto registrato finora. Ma si tratta di misure che sembrano ovvie, politicamente facili da prendere, e a ragione la gente può temere che gli aiuti umanitari, per quanto leniscano la sofferenza e appaiano moralmente necessari, finiscano solo per prolungare la guerra e generare ancor più dolore, che avrà ancora più bisogno di essere lenito. Si può fare invece qualcosa per porre fine alla guerra? Daniel Kurtzer, già ambasciatore americano in Egitto e Israele, ha scritto di recente un pezzo per il New York Times in cui si augurava che venissero intavolate trattative più serie e durature con la Russia, e da lì anche con altri Paesi. Tergiversare in gruppo è meglio che tergiversare da soli. Lo scopo sarebbe quello di trovare gente di entrambe le fazioni coinvolte nella guerra civile in grado di formare insieme un governo di transizione che sia, anche solo temporaneamente, accettabile da tutti (o meglio, che sia accettabile da tutti se e solo se tutti sono soggetti a forti pressioni esterne).
Alcuni ufficiali del vecchio esercito siriano stanno oggi combattendo chi per il regime e chi per i ribelli, e sono loro i candidati più plausibili a un governo di transizione. Verosimilmente ci sono dei soldati di professione votati all’attività politica civile, i quali potrebbero agire in buona fede – sicuramente più di qualsiasi esponente religioso – come giunta temporanea. In un secondo momento potrebbero giocare un ruolo importante nella scelta dei loro successori civili. L’obiettivo a cui puntare non dovrebbe essere quello delle “elezioni libere”. Le elezioni e la democrazia funzionano solo se ci sono dei partiti politici pronti a dividere il potere gli uni con gli altri e ad avvicendarsi al governo. In Siria oggi non esiste nulla di tutto ciò, i militanti preferirebbero morire piuttosto che cedere il turno. Il primo governo civile dovrà essere scelto tramite negoziati, non con le elezioni. Quel che serve è un governo non settario in grado di garantire sicurezza fisica e servizi fondamentali a tutti i siriani, capace di stabilire e mantenere un monopolio sull’uso legittimo della forza (in realtà, sull’uso della forza in sé).
Non c’è niente che l’America possa fare da sola, con il suo potente arsenale, per dare vita a un assetto del genere. Ci vorrà lo sforzo degli americani, dei russi, degli europei e possibilmente anche dei cinesi. E già che ci siamo, sarebbe utile coinvolgere anche i due Paesi che più hanno interessi in gioco nella guerra civile siriana: Iran e Israele. Ci sono già dentro, Israele dall’aria, l’Iran da terra con la guardia rivoluzionaria. Estrometterli dalla discussione sarebbe assurdo.
Il tergiversare di Obama e di chiunque altro ha consentito alla guerra di arrivare a un punto in cui si è prossimi al reciproco sfinimento. Quindi ora potrebbe essere un buon momento per uscirsene con una proposta che soddisfi le varie forze esterne e metta fine alle sofferenze della popolazione siriana.
Vi prego di notare che questa non è una proposta di sinistra. Si presta a interessi imperialistici e non rimette il potere nelle mani della classe lavoratrice siriana. È un approccio “riformista”, come si usava dire un tempo. La pace viene prima. Vengono prima la stabilità e addirittura “la legge e l’ordine”. Democrazie e socialdemocrazia subentrano molto dopo.
Traduzione di Chiara Rizzo
La versione originale dell’articolo è stata pubblicata dalla rivista americana Dissent, di cui Michael Walzer è l’ex condirettore.
Una soluzione riformista?
Io direi paternalista e pre o post democratica: “questi musulmani non sono ancora o non più capaci di autodeterminazione popolare”!
Obama tergiversa perché ha poco midollo morale e troppa linfa politica in corpo. Nulla sostituisce l’autodeterminazione della base popolare e nulla leva l’obbligo di proteggere da un regime criminale come questo siriano. Forse dividere temporaneamente può corrispondere alla realtà sul terreno e sul piano geostrategico regionale e interblocchi … L’unità federale corrisponderà a scelte di riconciliazione nazionale e di dialogo internazionale.