Su Foreign Policy, Anne-Marie Slaughter – autrice dell’articolo “Why women can’t still have it all” che le è valso il 32esimo posto nella classifica dei 100 global top thinkers per il 2012 – torna sul tema dell’emancipazione delle donne, a partire dalla difficile concilizione tra famiglia e lavoro, per sposarlo con quello degli Affari Internazionali – che insegna all’Università di Princeton. Il risultato è “Why family is a foreign-policy affair too”, il cui messaggio è sostanzialmente questo: le donne ai vertici della politica estera sono poche elette, ma se tutte le donne potessero destreggiarsi tra la famiglia e l’ascesa professionale negli Affari Internazionali, tutto il mondo sarebbe migliore. Il tema è però trattato ancha da altre testate, attraverso degli articoli su Susan Rice, il nome più quotato a prendere il posto di Hillary Clinton, quando finirà il suo mandato. Ruth Marcus, opinionist per il Washington Post, nota il persistere di uno sguardo ancora impari tra uomini e donne: “Riconoscere il progresso compiuto dalle donne non significa che abbiamo cancellato il sessismo”, che – come mostra la Marcus – resiste nelle conversazioni dell’opinione pubblica e degli addetti ai lavori. “Perché viene definita ‘abravisa’, quando evidentemente una simile durezza era salutata positivamente in alcuni dei nostri più potenti e rispettati segretari di Stato – da Henry Kissinger a George Shultz a James Baker? Sarà esagerato parlare di puro sessismo, ma penso che il genere giochi un ruolo, benché inconsciamente.”
E intanto The Atlantic sottolinea un paradosso di genere emerso dalle elezioni del Congresso, lo scorso 6 novembre: il record di donne elette è stato battuto, ma ancora nessuna di loro ricopre ruoli di rilievo nei comitati della Camera dei Rappresentanti.
Se Twitter è un problema per il giornalismo
“Retweet are not endorsement” o “Opinions are my own” – quanti giornalisti o blogger di autorevoli testate riportano queste parole nei propri profili su Twitter? Tantissimi. E lo fanno quasi a sottolineare la differenza tra la persona e il giornalista; a rivendicare il proprio diritto a pubblicare ciò che si vuole nel proprio spazio online. Non la pensa così il New York Times che, in seguito ad alcune critiche dirette alla corrispondente da Gerusalemme, Jodi Rudoren, che l’accusavano di postare sui social network commenti e tweet pro-palestinesi le ha assegnato un editor che si occuperà esclusivamente della sua attività social. Esagerati? Un precedente della Rudoren è raccontato da The Atlantic – in un articolo dal titolo “Twitterverse to New NYTimes Jerusalem Bureau Chief: Stop Tweeting!”. Poynter rilancia la notizia e pone la domanda ai lettori: “Should reporters’ tweets and Facebook posts be edited in advance?”. E il risultato del sondaggio, per ora è “No”. Anche GigaOm riflette sul caso, sostenendo che il New York Times abbia sbagliato: “Strumenti come Twitter o Facebook, prendono parte del loro potere dal fatto di offrire i pensieri e le opinioni di un giornalista, senza alcun tipo di filtro. […] Più si correggono e si filtrano, e più questi strumento perdono il loro potere – che è quello di connettere le persone nella maniera più diretta possibile”.
Sempre su Poynter, si può leggere la storia della vicenda legale tra Alistair McAlpine e la Bbc. Sir McAlpine, politico in pensione, ha ottenuto un risarcimento dalla Bbc di 185mila sterline, dopo aver vinto la causa per diffamazione, mossa contro la testata che aveva macchiato il suo nome con l’onta dell’abuso sessuale su minore. Ma la notizia sta facendo il giro della Rete soprattutto per la richiesta di McAlpine di vedere contestualmente puniti anche tutti coloro che hanno rilanciato o commentato la notizia sui social network. Come? In maniera proporzionale al seguito del singolo utente. Così, una ventina di utenti Twitter o Facebook – quelli, appunto con un alto numero di followers/amici – potrebbero ritrovarsi a dover pagare una somma in denaro per aver contribuito a diffondere la notizia diffamatoria. Per “i pesci piccoli della Rete”, dovrebbero invece bastare le pubbliche scuse, da postare ovviamente nello stesso social network dove era stato più o meno direttamente accusato Alistair McAlpine. Slate approfondisce la questione, focalizzando sulle differenze tra la legislazione americana e quella inglese di fronte alla diffamazione via Twitter.
La crisi di Gaza e la condizione dei cronisti di guerra
“The targets are people who have relevance to terror activity”. Così Avital Leibovich, la portavoce delle Forze di difesa israeliane, giustificò l’attacco dello scorso 20 novembre, in cui persero la vita tre reporter palestinesi, accusando poi Hamas di utilizzare i giornalisti come scudi umani. La natura dei conflitti, ma pure l’attenzione da parte delle testate ai corrispondenti di guerra, sono cambiate e rendono sempre più pericoloso fare informazione dalle zone dove si combatte. Ne parla David Carr, columnist del New York Times, che riporta quanto emerso dall’incontro del Committee to Protect Journalists: “Puntare ai giornalisti è ormai diventata una moda, e adesso tra quelli che li tormentano e li uccidono spuntano anche i governi”. Anche l’Unesco si è interessata al problema della stampa come bersaglio durante le guerre, riconoscendo che in gioco non c’è solo la salute di chi fa questo mestiere, ma la battaglia per la verità – oltre a quella per le idee – che comunque “andrebbero combattute con i blocchetti per gli appunti e le cineprese, non con le armi di guerra.”
I libri possono sopravvivere nell’epoca dei 140 caratteri?
La domanda è sempre più centrale, non solo nel mondo dell’editoria, ma anche in quello della cultura in generale. Una soluzione prova a darla Salon, con un articolo sulla prima opera dello slam poet Beau Sia, un ventenne, un echoboomers, un nativo digitale. Il messaggio è che la letteratura non è una questione di mezzo o di contenitore, né di forma: “I social media avranno pure cambiato il processo dell’informazione, ma il nostro bisogno fondamentale di capire la nostra umanità rimane inalterata”.
Un’altra risposta viene invece in questi giorni dallo stesso Twitter che, dal 28 novembre fino al 2 dicembre ha lanciato, in via sperimentale, le selezioni per il Festival della Letteratura in 140 caratteri, con tanto di evento in “real life” – come sottolineato dal blog Arts Beat, all’interno del New York Times – per conoscere e premiare gli ermetici 2.0 del romanzo da 140 caratteri.
Mitt Romney “si lecca le ferite”
Una sbirciata dietro le quinte, per capire che fine ha fatto l’uomo che nei mesi della campagna elettorale americana ha condiviso i palchi e gli schermi con il suo concorrente, e adesso sembra scomparso nel nulla. Mitt Romney viene ritratto dal Washington Post come un uomo annoiato, “senza un piano” e che “si lecca le ferite”, per dirla con il titolo dell’articolo del Post. A rafforzare questa idea, una photo gallery colleziona alcuni momenti della vita del Governatore del Massachusetts dal discorso della sconfitta fino al pranzo alla Casa Bianca, della scorsa settimana. La foto di quello che è stato il primo incontro ufficiale dalle elezioni tra Barack Obama e Mitt Romney ha fatto il giro della rete, imponendosi non tanto per il diritto di cronaca o la curiosità di sbirciare i due ex contentendi all’interno della Stanza Ovale. L’espressione di Mitt Romney ha infatti scatenato l’ironia e la fantasia degli internauti che si sono divertiti a creare divertenti fotomontaggi, alcuni dei quali sono stati raccolti dal sito del quotidiano inglese The Daily Mail.
“Se tutte le donne potessero destreggiarsi tra la famiglia e l’ascesa professionale negli Affari Internazionali, tutto il mondo sarebbe migliore”: non possiamo che essere d’accordo!