C’è un misto di orrore e incredulità in chi alle latitudini d’Europa assiste attonito – da sdraio da vacanza che appaiono d’un colpo insultanti – allo sfacelo di un Paese, lontano ma non troppo, nell’arco di una manciata di giorni, o di settimane per chi era un po’ meno distratto. E quell’incredulità, una volta tanto, è la stessa per gli ignari cittadini, per i governanti e per buona parte della famigerata intelligence. Fa male pensare di aver abbandonato un popolo a se stesso, anzi coi suoi peggiori spettri; fa male l’idea di essere stati condotti dal proprio alleato n.1 dritti dentro un burrone; e fa male pensare di aver buttato via vent’anni di sforzi, vite, energie – come quelle coppie che si lasciano d’improvviso dopo una lunga relazione e percepiscono la vertigine di un tempo di vita che appare a posteriori sprecato. Può darsi che non sia del tutto vero, così come gli amici si precipitano a dire in casi del genere: che qualcuno almeno dei semi di libertà e democrazia piantati in Afghanistan troverà il modo di continuare a germogliare. Ma è certo, sin da oggi, che questo stordimento europeo avrà degli esiti. Anzi, li sta già avendo.
«Non è stata l’Ue a decidere di lasciare l’Afghanistan, né i suoi Stati membri: è stata una decisione di Trump, poi implementata dalla successiva amministrazione americana. E noi non abbiamo potuto far altro che seguirla», ha risposto martedì sera l’Alto Rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell all’unica giornalista afghana a Bruxelles che lo supplicava, sull’orlo delle lacrime, di non riconoscere a nessun costo il nuovo governo a guida talebana. È il segno tangibile, solo il più manifesto, di un’irritazione europea che è andata crescendo col passare dei giorni e delle settimane verso la gestione catastrofica del ritiro dall’Afghanistan da parte della Casa Bianca. Un’irritazione che mescola a ben vedere due elementi: la disillusione da un lato verso un presidente Democratico cui dopo l’incubo del quadriennio-Trump si era guardato come il restauratore dell’asse di ferro transatlantico e dell’ordine liberal-democratico nel mondo, eccedendo evidentemente in entusiasmo; la consapevolezza dall’altro dei propri limiti, ossia dell’incapacità, con i propri soli mezzi, di avere influenza se non marginale sui grandi processi mondiali che richiedono un timbro politico-militare.
Nei palazzi dove si ragiona con maggior concretezza, queste emozioni stanno già lasciando il passo a un lavoro di rielaborazione, per il momento teorica, del ruolo dell’Europa nel mondo. Al di là delle esternazioni di Borrell, è al cuore del potere europeo dunque che vale la pena rivolgere lo sguardo: a Berlino. Già lunedì, prima ancora che Biden si presentasse davanti alle telecamere per provare a spiegare al mondo il senso della sua mossa, era stata la Cancelliera Angela Merkel a sgombrare il campo da ogni equivoco e parlare per prima apertamente di una “valutazione sbagliata comune” sui tempi e modi del ritiro. Ma dietro la fragile patina del galateo diplomatico, il senso della riflessione che sta emergendo dentro la leadership tedesca – della CDU in primis – è ben più profondo. «Quello che è accaduto non è un semplice errore: è una catastrofe. È un fallimento morale dell’Occidente, le cui conseguenze politiche possiamo oggi appena intravedere», ha detto mercoledì una figura di peso del partito di governo come Norbert Roettgen, presidente della commissione Esteri del Bundestag. Quali debbano essere queste conseguenze, dal punto di vista tedesco, lo ha messo in chiaro nelle stesse ore, con parole che pesano come macigni, il vice-capogruppo della CDU Johann Wadephul. «Dobbiamo prendere atto che gli Stati Uniti non saranno più il poliziotto del mondo, né dell’Europa», ha scandito Wadephul intervistato da Bloomberg, non prima di aver rinfacciato agli Usa la totale assenza di consultazione con gli alleati nel programmare il ritiro. «Per un Paese formato da decenni ad astenersi dall’utilizzare il proprio potere militare sarà un percorso lungo, ma è evidente dunque che la Germania dovrà fare di più sulle questioni di politica estera e di sicurezza nel vicinato», ha concluso l’alto esponente CDU.
Se una capacità militare autonoma europea è sempre stato un pallino francese (qualcuno in più perdonerà forse oggi ad Emmanuel Macron di aver definito già due anni fa la Nato come “clinicamente morta”), perfino nel Regno Unito, vale la pena aggiungere, ragionamenti del genere stanno prendendo il largo. «La caduta di Kabul è il più grande disastro di politica estera dai tempi di Suez», ha scritto sul Times il presidente della commissione Esteri del Parlamento di Londra (conservatore, anche in questo caso) Tom Tugendhat. «Dobbiamo ripensare al mondo in cui trattiamo i nostri amici e in cui difendiamo i nostri interessi, e dobbiamo farlo in fretta». «È ora di svegliarci – gli ha fatto eco su Twitter l’ex ministro Gavin Barwell – La lezione per gli europei è chiara: chiunque sia il presidente, gli Usa non garantiranno più il loro sostegno in quelle parti del mondo in cui non sono coinvolti loro interessi vitali». E se da Roma si guarda per il momento allo scenario con prudenza direttamente proporzionale al nostro peso politico-militare (ben minore), non pare un caso che nelle ore della caduta di Kabul anche da fonti di governo italiane sia stata fatta accuratamente trapelare tutta la frustrazione per gli appelli lanciati nei mesi precedenti, e mai ascoltati dagli americani, a prolungare almeno in parte la presenza militare in Afghanistan per ritardare, se non evitare, la vittoria Talebana (e l’esplosione di una possibile bomba migratoria).
Dopo nove mesi passati a sognare ad occhi aperti per l’elezione di Biden, i governi europei – e con loro, la gran parte degli analisti e commentatori – si ritrovano a terra, disillusi e delusi, in fondo, un po’ anche da se stessi, e si apprestano a correre a riaprire i cassetti in cui avevano richiuso i piani per dar corpo alla famosa autonomia strategica. Non è detto che sarà un male, a ben vedere, per la salute delle relazioni transatlantiche, come nota su Politico un osservatore attento come Max Bergmann. Ma è certo che sarà un lavoro lungo e costoso, sotto tutti i punti di vista.
Foto: La cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron nel loro ultimo incontro bilaterale, il 18 giugno a Berlino (John Macdougall / AFP).