Lo chiamano il paese a due velocità, immagine calzante del Marocco a sei anni dalle rivolte che graziarono re Mohammed VI. La divisione è geografica, palpabile: da una parte le zone rurali e montagnose, dimenticate dalle politiche economiche del governo centrale; dall’altra i grandi agglomerati urbani, ricettacolo di investimenti e progetti infrastrutturali.
L’immagine plastica del gap l’ha data l’ultima tragedia: il 19 novembre quindici donne sono morte nel suq di Sidi Boulaalam, cittadina della provincia costiera di Essaouira, schiacciate dalla calca durante la distribuzione di aiuti alimentari. La gente era accorsa alla notizia dell’attività caritatevole di un’organizzazione locale, finanziata da un ricco imam: pane, farina, olio, zucchero per le famiglie indigenti. Si aspettavano qualche centinaio di persone, ne sono arrivate un migliaio, spinte dalla miseria aggravata dalla siccità che ha decimato la produzione agricola.
Da giorni stampa e politici si interrogano sulle cause. C’è chi imputa la responsabilità alle autorità locali che non hanno saputo gestire la folla e chi incolpa l’organizzazione di beneficenza, senza licenza. Mercoledì 22 novembre il ministro dell’Interno, Abdelouafi Laftit, ha annunciato la creazione di un «registro dei poveri» in cui inserire gli individui da sostenere con «sussidi diretti», che sostituiscano quelli di associazioni di beneficenza private e poco controllabili.
In pochi sono andati alla radice del problema: la crescente povertà della popolazione marocchina, privata di opportunità di lavoro e soffocata da un elevato tasso di disoccupazione (il 30% tra i giovani, in alcuni casi spinti tra le braccia dei gruppi jihadisti in Libia e in Siria in cerca di una qualche prospettiva di cambiamento). Numeri invisibili che non vengono catturati dalle istituzioni internazionali, concentrate sui progetti di sviluppo di Rabat, Casablanca, Tangeri. La Banca Mondiale non calcola il più il tasso di povertà dal 2014, quando veniva data al 4,8%. Ma basta spostarsi dalle grandi città per vederla lievitare: nelle zone che vivono di agricoltura e pastorizia, come Sidi Boulaalam, il tasso decolla al 20%. Si stima che nelle province marginalizzate, dal Rif a Essaouira, un terzo della popolazione viva con non più di tre dollari al giorno.
Ad abbagliare, però, la comunità internazionale – che descrive il Marocco come “isola felice”, non toccata dall’instabilità dei paesi vicini – sono i mega progetti infrastrutturali che Rabat annuncia con cadenza regolare ormai da anni. Per il 2018 è prevista la costruzione di autostrade, ferrovie, aeroporti e porti, piani che richiederanno l’investimento di miliardi di euro. Tra questi l’autostrada Berrechi-Tit Mellit e il completamento della direttrice Casablanca-Berrechid; quasi 700 milioni per la costruzione della linea ferroviaria di alta velocità tra Tangeri, Casablanca e Rabat e, in un secondo momento, Marrakesh; 23 miliardi di euro per la realizzazione di strade da qui al 2035 (5.500 km di nuove autostrade collegheranno Fez, Nador, Tangeri, Tetouan); la modernizzazione e lo sviluppo dell’aeroporto Mohammed V di Casablanca, per un costo di 2,25 miliardi di euro; e la costruzione del porto Tangeri Med, sullo Stretto di Gibilterra
E poi c’è la nuova Rabat, oggetto dei desideri di trasformazione culturale della monarchia. L’oceano e il fiume Bou Regreg saranno cornice alla ridefinizione architettonica e narrativa della comunità: è in fieri il nuovo Grande Teatro, opera dell’archi-star Zaha Hadid, parte di un mega progetto da 110 ettari lungo il fiume che conterrà un museo archeologico, l’archivio nazionale, un hotel, un quartiere residenziale e centri commerciali. Sull’altra riva, nella città-gemella di Salé, si sta pianificando un quartiere commerciale. E ancora ponti, nuovi quartieri, strade, il nuovo sistema tramviario, cinema, teatri, un nuovo ospedale. Una rete che leghi la capitale, politica e culturale, alle aree economicamente più ricche, Casablanca a sud e Tangeri a nord.
Il sud e l’ovest sono lontani, marginalizzati dal governo centrale. E dunque «pericolosi» per la presunta stabilità interna: l’ultimo anno ne è stato la prova, con manifestazioni di massa nella montagnosa e berbera regione del Rif, proteste spente solo dopo mesi di repressione e arresti. Ma nonostante decine di manifestanti condannati a pene da uno a 20 anni di prigione e il leader del Movimento Popolare tuttora dietro le sbarre con l’accusa di aver attentato alla stabilità del paese, i focolai non sono spenti perché accese restano le cause della protesta: disuguaglianza strutturale, corruzione, alto tasso di disoccupazione, mancati investimenti e zero redistribuzione della ricchezza. Una crisi aggravata dalle scelte politico-economiche del governo: tagli ai sussidi e ai posti di lavoro statali, concentrazione delle aziende elettroniche, aeronautiche e di lavorazione delle risorse naturali nei grandi agglomerati urbani, mancati investimenti nei settori in grado di assorbire forza lavoro.
Credit: Fadel Senna / AFP