Amara ironia della sorte, il voto britannico per l’uscita dall’Unione è indirizzato a un’Europa che non abbiamo mai voluto. È nostro compito adesso tornare a instillare passione nell’ideale europeo.
Il referendum britannico, venduto all’opinione pubblica come vittoria della democrazia sull’esosa e inefficiente burocrazia di Bruxelles, è una catastrofe per la politica democratica. Il 48,1% dell’elettorato che ha votato per rimanere all’interno dell’Unione, e con esso il resto dell’Europa, dovrà scendere a patti con le conseguenze di quanto è accaduto. Gli esponenti politici di destra si sono già impossessati del risultato. Geert Wilders in Olanda, Alternativa per la Germania e Marine Le Pen in Francia stanno tutti cercando di giocare la carta del plebiscito, tratto distintivo della democrazia illiberale e antitesi della partecipazione.
Vale la pena di ricordare che il popolo britannico non ha votato sulle conseguenze a lungo termine dell’uscita, il cui impatto diventerà chiaro nelle prossime settimane e che potrebbero dar loro motivo di pentirsi.
La Scozia potrebbe lasciare il Regno Unito. È tornata alla ribalta la questione irlandese. L’idea di una Gran Bretagna che risorge si rivelerà un’illusione. Il referendum ha già spaccato il Paese, tra proeuropeisti ed euroscettici, nord e sud, giovani e vecchi.
Per capire cosa sia accaduto in Gran Bretagna il 23 giugno è particolarmente utile la distinzione tra “voce” e “uscita” teorizzata dall’autorevole economista Albert Hirschman. Se un individuo non è soddisfatto delle condizioni in cui vive, può “dar voce” – vale a dire può restarci e cercare, esprimendosi, di modificare quelle circostanze – o può “uscire”, abbandonare quella situazione. L’insoddisfazione nei confronti della classe di governo in genere non si supera scegliendo la seconda strada.
Eppure i Brexiter sostengono proprio di essere finalmente riusciti a dar voce ai britannici contro l’“illegittima” ingerenza dell’UE negli affari della Gran Bretagna. L’elettorato del “leave” ha messo in chiaro che non vuole che le sue sorti si decidano a Bruxelles, ma questo è quanto, non ha detto altro. I fautori del rimanere, dal canto loro, non hanno nemmeno provato ad associare il dibattito alla questione di una visione politica (alternativa) dell’Europa che potesse andare a genio al popolo britannico.
L’accordo di David Cameron con l’UE avrebbe in ogni caso privato il Regno Unito della capacità di contribuire in maniera significativa alla politica europea. In una situazione del genere, come ha sottolineato Anthony Barnett, si è attivata nella testa dell’elettorato proprio la distinzione tra voce e uscita: votare per uscire dall’Europa recava in sé la promessa di un’alternativa al contesto attuale che l’opzione del rimanere non offriva.
Per quanti di noi appoggiano il progetto europeo, è ironico e lascia l’amaro in bocca il fatto che questo voto di sfiducia sia indirizzato a un’Europa che non abbiamo mai voluto: un’Europa di magnati d’impresa, burocrati intriganti e iper-regolamentazione, l’Europa delle élite e dell’austerità punitiva della troika.
Il fallimento di questa Europa viene ora usato come mezzo per annientare ogni entusiasmo nei confronti dell’ideale federalista. Può anche essere, però, che da parte nostra ci sia stato un eccesso di “ordinaria amministrazione”, e che abbiamo portato avanti la nostra causa europea con un linguaggio privo di passione.
Il voto sulla Brexit ci fa capire fin troppo chiaramente che i fautori di una maggiore integrazione europea devono portare al dibattito ben altri argomenti oltre a quello delle frontiere aperte e della riuscita dell’Europa come progetto di pace. E che non devono fare esclusivo affidamento su calcoli razionali di consumatori. Piuttosto, devono cercare di innescare la stessa carica emotiva ottenuta dalla campagna per il “leave” e di piegarla alla visione di un rinnovato progetto europeo. Limitarsi a confutare le tesi portate avanti dagli euroscettici, molti dei quali sono nazionalisti autoritari, non basterà. Un così radicato risentimento nei confronti dei “poteri forti” è immune alle argomentazioni ragionate, e anzi ne verrà solo alimentato. Al contrario, dobbiamo prendere i semi di verità che riusciamo a individuare nelle tesi della fazione del “leave” e inglobare tale critica in una narrativa europea nuova e alternativa.
Che elementi dovrebbe racchiudere una narrativa del genere? Dovrebbe essere sostenuta da una roadmap realistica e dettagliata, completa di piani finanziari e riforme istituzionali, e dovrebbe delineare in modo estremamente pratico le modalità con cui, entro il 2030, sarà possibile rivitalizzare l’Unione Europea in modo da creare una comunità politica socialmente equa, ecologicamente sostenibile, culturalmente inclusiva e atta alla cooperazione internazionale.
Dovrebbe prevedere un piano di come l’Unione Europea intenda ovviare allo scandalo della disoccupazione giovanile e di come intenda trasformare gli impegni presi nell’ambito dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e gli obiettivi di sviluppo sostenibile degli Stati Uniti in pilastri di un’economia politica a prova di futuro; un piano di come indirizzerà le migliaia di miliardi di euro che circolano nei mercati finanziari di tutto il mondo in programmi atti a finanziare progetti che servano il bene comune; e un programma di come intenda affrontare problematiche dimostratesi di difficile soluzione a livello dei singoli Stati-nazione, come la lotta al terrorismo, la crisi dei rifugiati, e la protezione dei nostri confini.
Per rispondere al suo deficit di democraticità, l’Europa non avrà pressoché altra scelta che quella di accettare il referendum diretto come strumento di formulazione del volere politico della società, corredato da una imprescindibile consultazione pubblica. Al contrario del referendum sulla Brexit, l’elaborazione di una roadmap europea non sarà una semplice questione di sì o di no. Si tratta di un programma i cui dettagli andranno elaborati e definiti tramite numerosi referendum – a livello nazionale e sovranazionale – e che richiederà considerevoli attività di consultazione sia da parte degli esperti che di un campione rappresentativo della popolazione.
I paesi europei già offrono l’opportunità di attuare questo genere di democrazia partecipativa. Esistono già dei piani per la creazione di un organo consultivo come quarto potere. L’UE, inoltre, può attingere a esperienze di successo con forme di partecipazione transnazionale dei cittadini dopo i referendum per l’adozione della Costituzione europea nel 2005 in Francia e nei Paesi Bassi. L’Europa deve sfruttare la riuscita di queste innovazioni democratiche, e collegarle ai processi decisionali del Parlamento, della Commissione e del Consiglio europei.
A tale scopo, dovrebbe essere convocato in forma permanente un Consiglio del Futuro, composto da un campione di cittadini europei incaricati di sviluppare la visione di quella che sarà la società europea tra 15-20 anni, prendendo in considerazione le implicazioni per l’Europa in termini di politica economica, sociale, della sicurezza, energetica e ambientale. L’elettorato potrebbe a quel punto votare con un referendum l’adozione di una roadmap formulata dalle istituzioni europee e a partire dalle raccomandazioni di quei cittadini.
Una versione di questo articolo è stato pubblicato su The Guardian l’8 luglio 2016
Traduzione dall’inglese di Chiara Rizzo
Gli autori:
Patrizia Nanz è la direttrice scientifica dell’Institute for Advanced Sustainability Studies e.V. (IASS) di Potsdam, in Germania, e docente in transformative sustainability studies presso la stessa università.
Claus Leggewie è uno scienziato politico tedesco e direttore dell’Institute for Cultural Studies di Essen.
Daniel Cohn-Bendit è un politico franco-tedesco. E’ stato copresidente del gruppo European Greens–European Free Alliance presso il Parlamento Europeo European Parliament.
Stiamo scontando il deficit democratico di quest’Europa. Pochissimo è stato fatto per avvicinare i cittadini ai centri decisionali di Bruxelles.A parte Erasmus, grande conquista dovuta ad una persona “periferica” rispetto alla burocrazia europea, nulla è realizzato pur avendo a disposizione media ultramoderni…nessuna seduta in streaming, nessun controllo dei cittadini elettori, solo visite di circostanza ai palazzi europei.
pensi sia una grande idea. Condivido l’opinione che l’Europa debba cambiare e e ritrovarsi attorno ad un grande progetto federalista. La partecipazione dei cittadini è importante , anche se non è facile motivarne una buona parte, essendo questa guidata da facili slogan populisti e interessi a breve termine. Per questo penso sia comunque molto importante che intellettuali di tutta Europa formulino e guidino questo progetto europeo ‘alto’ . Una volta impostate le linee guida il progetto dovrebbe essere discusso, eventualmente modificato, con la partecipazione dei cittadini. La dissemination ‘ è altrettanto fondamentale per la riuscita del progetto.