Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il risultato delle elezioni in Turchia è stato una sorpresa. Per due motivi principali: il calo del partito al governo, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo – l’Akp di Erdoğan – e l’ingresso in parlamento dell’Hdp, uno schieramento filo-curdo che rappresenta in modo più ampio anche la sinistra democratica e pluralista turca. La sfida non era facile, la sproporzione di mezzi enorme, i toni della campagna elettorale molto accesi e violenti. In più, una soglia di sbarramento del 10%, istituita in seguito al colpo militare del 1980, che per decenni ha alterato la rappresentanza effettiva in parlamento. Quando il partito Hdp (Halkların Demokratik Partisi, Partito democratico dei popoli) ha dichiarato di volersi presentare come lista per le elezioni in molti hanno quindi pensato che fosse un’operazione arrischiata. Fino ad allora, gli ideali predecessori di questo partito, rappresentanti di precedenti formazioni filo-curde, avevano sempre deciso di correre alle elezioni come candidati indipendenti, unico escamotage per aggirare l’ostacolo dello sbarramento che, tuttavia, non permetteva mai di avere un numero cospicuo di seggi in parlamento. Candidandosi alle prime presidenziali della Turchia nel 2014, Selahattin Demirtaş, il co-capolista dell’Hdp, aveva sicuramente potuto testare un certo riscontro elettorale e, così, se il 9,76% dei voti appariva un numero risibile di fronte alle percentuali degli altri due candidati, senza dubbio deve aver spronato molto verso la decisione del partito di presentarsi come lista.
A urne chiuse e conti fatti, l’Hdp ha ottenuto poco più del 13%, riportando 82 seggi in parlamento. È un risultato straordinario le cui ragioni sono numerose, seppure dietro tutte c’è di sicuro la necessità di un cambio di rotta rispetto al progetto politico di Erdoğan, sempre più segnato da un forte autoritarismo e dall’accentramento dei poteri. L’Akp perde nove punti, passando dal 49,8% delle ultime politiche del 2011 al 41,8%, e in termini di seggi passa da 327 a 254 seggi (su 550), perdendo così la possibilità di formare un governo di maggioranza e vedendo sfumare la riforma presidenziale, per la quale sarebbero stati necessari almeno 330 voti. L’impedimento posto di fatto al presidenzialismo, tanto auspicato dall’attuale capo dello Stato Recep Tayyip Erdoğan, è il primo effetto diretto di questa tornata elettorale. Nessuno dei partiti dell’opposizione appoggia veramente il progetto e nella società turca sono numerose e diverse le voci che si sono sollevate contro. Se l’Akp resta a livello nazionale il primo partito, nelle regioni dell’Egeo e del Sud-Est resta a distanza al secondo posto, seguendo rispettivamente il partito kemalista, il Chp, e l’Hdp. Ciò non può che avere forti ripercussioni sulla vita e gli equilibri politici del paese. Si rimescolano le carte e diversi sono i possibili scenari che si aprono all’indomani del voto. Sono in corso le negoziazioni per formare delle coalizioni tra i quattro partiti entrati in parlamento. E se l’Hdp ha escluso ogni eventualità di allearsi all’Akp – probabilità remota ma di cui si era discusso in periodo elettorale – tutte le altre combinazioni sono aperte. L’ago della bilancia lo farà probabilmente l’Mhp, partito ultranazionalista, che ha guadagnato molti voti in queste elezioni, sottraendone all’Akp, e guadagnando un numero di seggi pari all’Hdp.
Il profilo del parlamento uscito dal voto del 7 giugno è inevitabilmente cambiato. Ci sono molte più donne (96), e ci sono deputati armeni, aleviti, rom, yezidi, siriaci: rappresentanti di quella composizione plurale che caratterizza la società turca. Il merito è principalmente dell’Hdp che si è fatto portatore di un messaggio inclusivo, pluralista, a favore dei diritti di tutte le minoranze, e si è proposto come rappresentante di una compagine molto diversificata e variegata di gruppi della società civile. È per tale motivo che la definizione di partito filo-curdo gli sta un po’ stretta. È indubbio che l’elemento identitario originario sia rilevante, come mostra anche la carta elettorale. Così come è evidente che questa formazione erediti molto, tanto dalla storia quanto dalla pratica politica dei diversi partiti curdi che si sono succeduti nel corso degli anni. È nell’esperienza decennale di un rapporto continuo e controverso con lo Stato, continuamente spezzato dalla violenza, oscurato dalla morte, che però evidentemente l’Hdp ha anche elaborato un linguaggio e i gli strumenti per muoversi all’interno di un ambito politico più ampio, eterogeneo che va oltre la questione curda, o meglio facendo di essa una ragione anche esemplificativa per reclamare un cambiamento generale in senso democratico e pluralista.
Che in parlamento ritornino figure storiche del movimento curdo come Leyla Zana, vincitrice del premio Sakharov e a lungo perseguitata per la sua attività politica, è di certo un segnale positivo che rende anche giustizia a una legittima rappresentanza che la popolazione curda, che conta circa 15 milioni di persone, merita in parlamento. Molto probabilmente, però, come mostrano queste elezioni, ciò non sarebbe stato possibile se l’Hdp non avesse fatto un passo in avanti, promuovendo un discorso che include molti altri, compresa quella parte della sinistra intellettuale e laica che non si riconosceva nel partito del Chp. “Noi tutti in parlamento” (Biz’ler meclise) era il suo slogan in campagna elettorale, un ‘noi’ molteplice che simbolicamente si è anche tradotto in una doppia candidatura, con Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, un uomo e una donna.
Ci sono i riverberi delle proteste di Gezi, di quando si è affermata una trasversalità e un pluralismo che superava le distinzioni di singole questioni – quella curda, alevita, armena o anche ambientalista, femminista, operaia eccetera – a favore di un discorso unico, e più incisivo, per la difesa dei diritti individuali, della libertà di espressione, di una maggiore democrazia. È questo un discorso che rilancia il desiderio di una buona parte della società turca che è stanca di tensioni, violenze, opposizioni e minacce, che si dimostra aperta a rimettere in discussione la storia nazionale, a confrontarsi con le voragini che costellano il passato. L’Hdp ha avuto la capacità di dimostrarlo, richiamando alla pace e alla calma quando tre giorni prima delle elezioni ancora un evento tragico ha teso di più gli animi, con l’esplosione di una bomba in un suo comizio affollatissimo a Diyarbakir. Oppure rispedendo al mittente le accuse di separatismo e di terrorismo; argomentando la presenza di bandiere turche ai suoi comizi – che ha stupito non pochi giornalisti pronti a sottolineare la contrapposizione tra curdi e turchi – come un fatto naturale, considerato il loro impegno per un paese che è anche il proprio. Infine, il successo elettorale dell’Hdp deve di sicuro molto anche a una vivace e attiva partecipazione dal basso, che oltre ad aver contribuito alla macchina elettorale, ha anche confortato molte e molti suscitando un senso di appartenenza e di solidarietà, di coraggio e dedizione, tra quanti negli ultimi anni si augurano che la nuova Turchia non sia solo quella costruita a tavolino da Erdoğan, dall’Akp, ma anche un paese più equo, democratico, plurale e aperto.
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