Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nei prossimi mesi si giocherà il futuro della battaglia contro la pena di morte nel mondo. Due le date chiave. La prima, il 1° luglio 2014 sarà l’inizio del semestre europeo a guida italiana, la seconda, il 16 settembre, l’apertura dei lavori dell’Assemblea Generale dell’Onu. Nel corso dell’appuntamento a Palazzo di Vetro, infatti, si punterà a una moratoria globale sulla pena capitale così come ha chiesto già più volte Ban Ki moon dopo il 2012, anno dell’ultima risoluzione votata a Palazzo di Vetro. E in questo il nostro Paese avrà un ruolo chiave nel promuoverne l’abolizione e l’implementazione della risoluzione del 2012 non solo come rappresentante della politica Ue ma anche sulla scia dell’azione già svolta a New York sin dagli anni Novanta, da quando Emma Bonino su incarico del governo presentò all’Assemblea la richiesta di moratoria universale delle esecuzioni capitali; politica che ha portato all’adozione della prima risoluzione (la 62/149) da parte dell’Assemblea Generale, nel dicembre 2007.
È in questa prospettiva che si è svolto a Roma l’incontro dal titolo “L’abolizione della pena di morte nella politica estera dell’Italia, tra semestre europeo e assemblea generale delle Nazioni Unite”, per fare un punto sulla situazione generale, partendo da dati concreti, quelli dell’ultimo rapporto di Amnesty International, presentato ufficialmente in Italia in questa occasione dopo l’anteprima di Londra, lo scorso 27 marzo. Sebbene la cronaca estera quotidiana offra già da sé continui spunti per riflettere. A partire dai luoghi culturalmente e politicamente più vicini, come gli Stati Uniti dove il 9 aprile, in Texas, è stata eseguita la condanna di Ramiro Hernandez, accusato di avere ucciso il suo datore di lavoro e di averne ripetutamente violentato la moglie; esecuzione avvenuta nonostante i molteplici appelli e le accuse di irregolarità nelle procedure processuali. Si tratta della sesta dall’inizio dell’anno, che segue quella piuttosto discussa di Dennis McGuire, in Ohio, dove la miscela sperimentale dei farmaci utilizzati ha impiegato una ventina di minuti per fare effetto. Da quando l’Ue ha bloccato l’esportazione verso gli Usa di penthotal, gli stati americani dove è prevista l’esecuzione capitale hanno infatti dato il via all’uso di cocktail farmaceutici sostitutivi i cui effetti non sono ancora ben sperimentati, lì dove, come in Virginia e nel Tennessee, non è stata reintrodotto direttamente l’uso della sedia elettrica.
E se però negli Stati Uniti il ricorso a condanne capitali è prerogativa di singoli stati che possono decidere autonomamente per la sospensione, come ha fatto il governatore dello stato di Washington Jay Inlsee, quello che preoccupa di più sono quei Paesi in cui il processo di abolizione implica un mutamento politico e culturale profondo, quali Cina, Iran (369 condanne eseguite), Iraq (169), Arabia Saudita (79), che poi sono quelli che guidano la drammatica classifica, assieme agli Usa (39). Anche se nel caso cinese è necessario fare un discorso a sé.
I numeri di Amnesty parlano di una crescita del 15% delle esecuzioni capitali nel corso del 2013, 778 in tutto, in 22 Paesi, a causa principalmente di un picco registrato proprio in Iraq e Iran. Con Indonesia, Kuwait, Nigeria e Vietnam che, invece, hanno ripristinato l’uso della pena di morte. In questa prospettiva il lavoro dell’Italia e degli altri Paesi promotori della moratoria globale si profila più complicato, anche se Amnesty International, assieme a tutte le organizzazioni del settore, sottolinea con cauto ottimismo come, nonostante la strada ancora in salita, quello verso l’abolizione sia un percorso inesorabile. Basti vedere come negli ultimi 30 anni i Paesi che l’hanno applicata sono scesi da 37 a 22 e come negli ultimi cinque anni, solo nove hanno fatto ricorso anno dopo anno alla pena capitale e fra questi figurano i primi della lista: Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita e Stati Uniti.
Quando si citano queste cifre, però, il computo è con tutta probabilità al ribasso perché molte delle nazioni che vi ricorrono non forniscono dati ufficiali in merito (in molti casi, chiarisce Amnesty, non informano neanche le famiglie). La Cina in particolare li ha chiusi sotto chiave e dal 2009 Amnesty International ha deciso di non forzare questo divieto, sfidando Pechino sul suo stesso terreno con l’obiettivo che il segreto di stato venga eliminato. Nel 2013, si ipotizzano comunque circa 3000 esecuzioni. Egitto, dove solo poche settimane fa sono stati condannati a morte 529 oppositori, appartenenti o legati ai Fratelli Musulmani, e Siria restano buchi altrettanto neri, assieme alla Corea del Nord, da cui non trapela alcun tipo d’informazione, Eritrea e Malesia.
Per quel che riguarda Iraq e Iran va rilevato invece, nel primo caso, che il dopo Saddam ha portato nel 2004 il ripristino della pena capitale per 48 tipi di reati, anche minori, e che la situazione di conflittualità interna, così come la mancanza di sicurezza, di certo non aiutano.
Anche in Iran la sentenza capitale è prevista per delitti meno gravi come quelli collegati al traffico di droga (si contano qui le maggiori esecuzioni) , alla prostituzione, alla blasfemia o anche per punire tendenze sessuali ritenute illegittime, fra cui com’è noto l’omosessualità. È certamente questo il dato più preoccupante, assieme anche al ricorso a pratiche cruente, come l’impiccagione, che in alcuni casi diventano spettacoli pubblici. Spettacoli a cui partecipano sia i famigliari dei condannati, sia quelli delle vittime a cui il diritto penale iraniano lascia la possibilità di decidere su un’eventuale grazia. Questo è quello che è successo di recente proprio durante l’esecuzione di un giovane, Balal, che proprio nel momento dell’impiccagione è stato tolto dal cappio dal padre della vittima, poco dopo che la madre della stessa vittima lo aveva schiaffeggiato, come testimonia la sequenza scattata da un fotografo iraniano per l’Isna.
Anche questo aspetto, assieme a dati allarmanti di questa prima parte dell’anno (si parla di almeno 176 persone giustiziate, in seguito alla triste impennata seguita alla pausa elettorato dello scorso giugno) preoccupa non poco Nazioni Unite e Unione Europea che, nel bel mezzo dei negoziati sul nucleare, in un clima che punta alla distensione dei rapporti internazionali, ha votato una risoluzione sulle relazioni tra Ue e Iran, con riferimento alla situazione dei diritti umani. Il dibattito sulla pena di morte indossa in questi casi risvolti politici e diplomatici che lo rendono strumento di pressing o di ritorsione. Ad averlo usato come tale è stata di recente anche la Russia che ne ha minacciato la reintroduzione in caso di sospensione dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (dal momento che la moratoria sulla pena capitale era una condizione vincolante per l’adesione della Russia all’organismo consultivo europeo nel 1996). In questa circostanza si tratta di un gioco di rimandi, che parte dal campo Ucraino. Del resto, pur essendosi espressa a favore dell’abolizione alle Nazioni Unite e avendola sospesa de facto dal ’96, un sondaggio del 2006 ha rilevato che due terzi della popolazione è a favore della sua reintroduzione.
Per concludere una nota positiva che arriva dall’Africa subsahariana, dove nel 2013 solo 5 paesi hanno eseguito condanne a morte: Botswana, Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Sudan, con la Nigeria che ha dato il via libera a 4 impiccagioni dopo sette anni di stop e la Somalia che con 34 esecuzioni è il primo della lista. Anche se in Africa, sono altri massacri consumati nel silenzio, al di là delle “esecuzioni di stato”, che fanno salire quotidianamente il picco degli orrori.
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