Il villaggio di Yandabo si trova nel Myanmar centrale sulle rive del fiume Ayeyarwady ed è famoso oggi per i suoi manufatti in terracotta. Ma il 24 febbraio del 1826 fu il teatro di un trattato tra birmani e britannici a conclusione della prima guerra anglo-birmana.
In un certo senso il dramma dei rohingya, la minoranza musulmana di lingua bengalese oggetto in queste settimane di una persecuzione che ne ha espulsi circa 380mila dal Myanmar in Bangladesh, è iniziata a Yandabo oltre duecento anni fa. A quell’epoca l’attuale stato di Rakhine – luogo di residenza dell’ormai sempre più ridotta comunità rohingya – era ancora sotto l’influenza birmana, le cui monarchie avevano sottomesso i regni indipendenti di questo territorio affacciato sul Golfo del Bengala. Gli interessi dei birmani e quelli della East India Company, che da Calcutta dirigeva l’espansione dell’impero commerciale con sede a Londra, entrarono in conflitto a spese del Rakhine e di altre regioni sotto dominio birmano. E la guerra privò i birmani, col trattato di Yandabo, del territorio che un tempo, prima delle invasioni da Est, arrivava fino all’odierna Chittagong, la seconda città dell’attuale Bangladesh.
I rohingya, così come altre minoranze arakanesi e i loro territori, passarono di mano. Erano stati parte di un regno indipendente, poi erano diventati birmani e infine incorporati nell’amministrazione del Bengala anglo-britannico. Parte dunque del British Indian Empire, il Rakhine – che gli inglesi chiamavano Arakan – era però destinato a diventare di nuovo parte della Birmania sotto dominio britannico per poi passare – dopo il breve interludio giapponese – all’Unione birmana, indipendente da Londra nel 1948, alcuni anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In tutto ciò, i rohingya e le altre minoranze, avevano cambiato padrone forse a volte senza rendersene conto. Un cambio di padrone che, come sempre, non aveva tenuto in gran conto il fatto che lo spostamento delle frontiere finisce sempre per creare fratture in comunità che si trovano da un giorno all’altro a convivere con altre e sotto un nuovo potere.
La storia dei confini – antichi, moderni, coloniali e così via – con la tragedia connessa per chi vi abita in mezzo, non è una novità. I processi di integrazione, a ogni cambio di bandiera, sono complessi e spesso portano a identità non risolte, malumori, rivendicazioni, conflitti. Ma nel caso dei rohingya è stato anche peggio. La nuova Birmania indipendente li ha sempre mal tollerati finendo a non riconoscerli come suoi cittadini. In un paese, soprattutto buddista e dove la minoranza musulmana conta appena per il 5% degli attuali 50 milioni di abitanti, ma dove si contano centinaia di comunità, lingue e tradizioni diverse e dove il processo di integrazione non è mai finito, lo sforzo fatto per dare uno status alle varie entità ha sempre escluso i rohingya.
A tutt’oggi, la legge che regola lo status delle minoranze birmane, esclude totalmente questa comunità definita di “immigrati bengalesi” e percepita dunque come un corpo estraneo: come se a spostarsi fossero stati loro e non i confini! La missione ad hoc di cui il governo birmano con a capo Aung San Suu Kyi ha incaricato nei mesi scorsi l’ex segretario dell’Onu Kofi Annan – il primo serio tentativo della Nobel di affrontare la questione – ha messo sotto accusa proprio la legge sulla cittadinanza del 1982 chiedendone una revisione. La legge divide l’appartenenza al paese lungo linee etniche e con una scala gerarchica dello status: pieno, associato, naturalizzato. Ma all’interno di questa architettura – che vale per birmani propriamente detti (bamar), kachin, shan, kharen e altre decine di minoranze – i rohingya sono invisibili. La piena cittadinanza si basa sull’appartenenza alle “razze nazionali” che sono considerate tali se erano presenti in Myanmar prima dell’occupazione britannica. Nonostante secoli di residenza, i rohingya però sono stati esclusi come autoctoni e quindi interdetti alla piena cittadinanza.
Ma la questione rohingya data da ben prima del 1982. I pogrom e le pressioni su questa comunità senza rappresentanza – che non può votare né candidarsi – l’hanno costretta a un esodo strisciante che a oggi ne fa una delle diaspore maggiori del pianeta. Si ha un bel dire che il Rakhine ospiti oltre un milione di rohingya (di cui 140mila in campi per sfollati interni) ma in realtà un censimento affidabile non c’è. Riserverebbe sorprese. Secondo una ricostruzione dell’emittente qatariota Al Jazeera, la lenta emorragia dal Rakhine ha prodotto una diaspora diffusa soprattutto nei paesi musulmani: 200mila rohingya vivrebbero in Arabia saudita; 10mila negli Emirati arabi uniti; 350mila in Pakistan; 40mila in India (a rischio espulsione); 5mila in Thailandia; 150mila in Malaysia, mille in Indonesia. Il solo Bangladesh ne ospiterebbe ormai quasi un milione.
La recente espulsione verso il Bangladesh, iniziata con gli incidenti del 25 agosto 2017 (quando un gruppo secessionista di ispirazione islamista ha attaccato trenta posti di polizia), conta a oggi circa 380mila profughi molti dei quali rimasti intrappolati nella terra di nessuno tra Myanmar e Bangladesh e addirittura imprigionati dal rischio di incorrere nei campi minati birmani se cercassero di tornare indietro. A questi vanno aggiunti circa 80mila profughi fuggiti in Bangladesh a partire dall’ottobre scorso quando un primo attacco armato dei secessionisti dell’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army) ha visto la prima indiscriminata reazione dell’esercito e la conseguente ondata migratoria. Ma nel 2016 in Bangladesh i rohingya erano già calcolati a quasi mezzo milione. Il condizionale è d’obbligo perché anche in questo caso il censimento è piuttosto arbitrario, sia perché, benché “paese amico”, il Bangladesh ha i suoi problemi e vorrebbe rispedire i rohingya a casa e comunque non concede loro (più) la cittadinanza. Sia perché i rohingya illegali sfuggono facilmente ai controlli grazie alla somiglianza etnico linguistica coi bangladesi.
Ma al di là dei numeri, il problema è politico: passare il confine è un atto volontario o si tratta di un’espulsione? È un fatto momentaneo o questa ciclicità comporta il sospetto di “pulizia etnica”, come ha detto l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani? È islamofobia o razzismo?
Che ci sia un problema connesso alla religione appare evidente. Così evidente che il Dalai Lama, che pure ha avuto parole di solidarietà con le vittime musulmane, non ha accusato il governo di Naypyidaw ma ha soltanto espresso compassione per i profughi. È altrettanto vero che, con l’esclusione di papa Bergoglio (le cui parole hanno comportato reazioni e preoccupazioni nella chiesa cattolica in Myanmar), i paesi occidentali e i loro leader sono stati molto tiepidi col governo birmano lasciando che a condannare fossero soprattutto i paesi dell’Organizzazione della Conferenza islamica, come il Pakistan, la Turchia o la Malaysia. Ma c’è altro: alcuni ricercatori sostengono che l’espulsione di questa minoranza non abbia a che vedere solo con fobie religiose e col revivalismo identitario buddista ma anche con un progetto economico per appropriarsi della terra. Dagli anni Novanta l’allora governo dei generali (sostituito nel 2015 dal primo esecutivo civile dopo decenni) ha infatti inaugurato una politica di requisizione dei terreni considerati sottoutilizzati. L’idea, comune a molti altri paesi, è che società private provviste di grossi capitali possano meglio mettere a profitto territori sottosviluppati, favorendone l’uscita dalla povertà. Dal 2012 una legge ha ulteriormente favorito i grandi agglomerati nazionali e internazionali che possono gestire migliaia di ettari. Le acquisizioni sono a scapito di zone incolte, della foresta ma anche di piccoli o piccolissimi appezzamenti di agricoltori che la stessa legge, abolendone una precedente che li tutelava, ha decisamente messo nell’angolo. La zona abitata dai rohingya rientra in questi piani e da allora sono passati di mano oltre un milione e 200mila ettari. Difficile che chi non ha cittadinanza abbia i documenti di proprietà e impossibile che chi ha avuto la casa bruciata ed è fuggito possa mai tornare a reclamare il maltolto.
Il futuro? Molto incerto. La diplomazia internazionale si muove con lentezza e le agenzie dell’Onu possono poco se non si esprime il Consiglio di sicurezza dove però la Cina, grande investitore in Myanmar e grande patrono della stabilità del paese, frena sostenuta da Mosca (tant’è che il massimo partorito è una richiesta di “passi immediati per por termine alle violenze”). Così si comporta anche l’India, l’altro vicino importante e che sui rohingya ha preso una posizione molto dura minacciando di espellerli dall’Unione. Poi ci sono le associazioni della società civile il cui peso è importante ma insufficiente anche se possono almeno tentare di garantire l’accesso al soccorso umanitario: è il caso di Amnesty, dei Nobel per la pace, di Msf o del Tribunale permanente dei popoli (Tpp) che, a seguito della Sessione di apertura su Crimini di stato commessi contro Rohingya, Kachin e altri gruppi in Myanmar, tenutasi a Londra il 6 e 7 marzo 2017, ha convocato una Sessione finale pubblica che si svolgerà dal 18 al 22 settembre 2017 a Kuala Lumpur, in Malaysia: testimoni ed esperti presenteranno i risultati delle indagini svolte sulla base degli elementi contenuti negli atti preliminari di accusa che imputano al governo birmano “crimini gravi”. Infine c’è il viaggio del papa in Myanmar e Bangladesh previsto per fine novembre, contraltare alla decisione di Suu Kyi di non voler partecipare alla prossima sessione dell’Assemblea generale dell’Onu a New York.
Intanto il tempo scorre come la sabbia in una clessidra che distilla lentamente un dramma e un dolore al momento senza soluzione.